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giovedì, dicembre 15, 2016

Deserto Iridato (di Simone Basso)

Sabato scorso, primo giorno di Ottobre, si è chiusa - virtualmente - la stagione internazionale di metà del gruppo.
La prima vittoria di un colombiano (Esteban Chaves) in una corsa Monumento, la piazza d'onore di Diego Rosa che si era speso per il (sopravvalutato) capitano Aru, il sesto posto dell'highlander Alejandro Valverde.
Eppure il Lombardia, solitamente l'epilogo dell'annata, non ha concluso questo 2016 atipico.
Rimane (o rimarrebbe, per chi non ha prenotato le ferie..) il Mondiale.

Rassegna iridata che ha preso il via il 9, con le Crono a squadre, e si concluderà con la prova regina - quella in linea, degli uomini - domenica 16.
Ebbene sì, Doha e la penisola araba ospitano, per la prima volta, i campionati mondiali.
La crema del ciclismo, che da qualche anno comincia dal deserto il suo tour de force stagionale, a Febbraio, stavolta finisce laggiù e con uno degli apici assoluti.
Un Mondiale per velocisti e passisti, con un tracciato suggestivo quanto estremo (e monodico) tutto pianura e trabocchetti.
La data posticipata riassume i problemi di una gara di oltre 250 chilometri in Medio Oriente: si tenta di evitare temperature troppo alte, su un percorso che deriva dall'unione di due tratti distinti.
Il primo settore, di 151 chilometri, parte dal cuore di Doha e punta verso il deserto.
Il secondo, rientrati in città, è un circuito - da ripetere sette volte - sull'isola artificiale The Pearl.
Il Qatar esibirà, in mondovisione, un complesso architettonico che, al termine dei lavori, sarà costato quindici miliardi di dollari.

Tecnicamente banale, adatto alle ruote velocissime e ai veltri da Classica, i 257,4 km sono un rompicapo tattico.
Il caldo e soprattutto il vento, che alcuni dì spira impetuoso sul lungomare di Al Khor, potrebbero stravolgere una competizione che, in condizioni ambientali normali, favorirebbe una volata a ranghi (quasi) compatti.
Il surplus è affidato al regolamento UCI che stabilisce il numero di corridori per squadra: difatti, l'equipe con gli sprinter più affidabili, appartendendo alla seconda fascia, avrà difficoltà a controllare il plotone.

La Germania degli strapotenti Andrè Greipel e Marcel Kittel, con un fuoriclasse come John Degenkolb a mò di libero (o stopper), potrà schierare solo sei elementi.
Giocoforza, malgrado la presenza di Tony Martin, i tedeschi dovranno salvarsi nel prologo in linea e sperare che qualcuno lavori con loro per lo stesso obiettivo: la volata di gruppo.
Tra le formazioni a nove unità, spicca un pokerissimo.
Gran Bretagna, Australia e Francia vorranno tenere insieme le fila.
I britannici corrono per Mark Cavendish, uno dei favoriti del lotto, che sarà circondato da uno squadrone (Cummings, Thomas, Rowe, Stannard, Swift).
Aussie e francesi nella stessa situazione, con due punte da proteggere ma dinamiche interne differenti. Michael Matthews e Caleb Ewan, protetti da una schiera di corazzieri (Hayman, Durbridge, Haussler, Hansen, etc.), danno l'impressione di coabitare meglio rispetto ad Arnaud Démare e Nacer Bouhanni.
I due galletti, fortissimi, si detestano fin dai tempi della FDJ: la loro rivalità (insanabile?) potrebbe costare cara a entrambi...
Belgio e Paesi Bassi sembrano invece destinate all'assalto.
I belgi hanno tante punte, esperte (Tom Boonen), che potrebbero colpire di rimessa (Roelandts e Stuyven), aggressive (il campione olimpico Greg Van Avermaet); olandesi versatili, adatti ai golpe nei ventagli (Niki Terpstra e Tom Dumoulin) e con la carta a sorpresa, in un eventuale sprint, del ventitreenne Dylan Greonewegen.
Il resto, in una contesa così incerta, non sarà mancia.
Pericolo pubblico numero uno, e detentore del titolo, lo straordinario Peter Sagan.
Che corre da solo o quasi (gli slovacchi sono in tre), ma sfrutterà i treni e le iniziative altrui: di sicuro, il suo zerosedici da dominatore - con tanto di vittoria nella Generale del World Tour - ha ridicolizzato la cosiddetta maledizione della maglia iridata.
Last but not least, la Norvegia schiera due outsider di lusso (Kristoff e Boasson Hagen) in un collettivo solido, e la Colombia una delle stelle del futuro, Fernando Gaviria, supportato (ahilui) da compagni poco adatti al compito.
Sottolineando l'inconsueta, apparente, marginalità di due nazioni guida, Italia e Spagna (coi soli Viviani e Lobato spendibili per un pronostico), facciamo le carte anche al team rossocrociato...

Il sabadì in quel di Bergamo, aspettando l'arrivo del Giro di Lombardia, Fabian Cancellara distribuiva consigli e pronostici alle tivù (RSI e RAI).
Questa, nel Qatar, sarà la prima kermesse arcobaleno del post Spartacus: un'era che ha caratterizzato quasi tre lustri del movimento elvetico.
Se il bernese pareva adatto a Doha, ma il trionfo di Rio ha suggerito un suggello dorato, la comitiva della Confederazione pare alla vernice di un'epoca, per adesso con poche certezze.
Col ritiro della portaerei Cancellara, il contingente svizzero potrebbe essere a una delle ultime esibizioni col numero massimo.
Michael Schaer, Martin Elmiger e Gregory Rast dovranno almeno provarci, inserendosi nelle fughe.
Stefan Kueng si misurerà, finalmente, con i Grandi.
Prima la Cronosquadre con la BMC, un formato che sta (rapidamente) perdendo fascino e senso, e quella individuale: all'Eneco Tour non ci è parso brillante.
Le cadute, troppe per essere considerate casuali, gli hanno tolto un pò di sicurezza: il potenziale, da campione (vero), ci sarebbe.

Gli ultimi Mondiali per velocisti furono vinti da due mammasantissima dello sprint.
Zolder 2002 e Copenaghen 2011, Mario Cipollini e Mark Cavendish, entrambi affiancati da super equipe composte da ras nel ruolo (provvisorio) di luogotenenti.
Nell'Italia del povero Franco Ballerini c'erano Petacchi, Bettini, Lombardi, etc.
Nove anni più tardi, a scortare Cannonball furono Wiggins, Froome, Thomas, Millar, Stannard...
Nessuna selezione di Doha 2016 vanta uomini di quel livello, dunque l'incertezza sarà il leitmotiv della manifestazione.
Che avrà anche il privilegio, dubbio, di un'incognita ambientale.
Si prevedono almeno trentacinque gradi all'ombra, quindi più di quaranta (effettivi) al sole.
Una commissione UCI, formata da giudici, medici e rappresentanti degli atleti, vigilerà (?) sulle condizioni meteo.
L'extrema ratio, se il caldo sarà insopportabile, è la riduzione del chilometraggio: scenderebbe a 150 km, rendendo l'ambaradan una farsa.
Il contrappasso di una scelta basata unicamente sul denaro, ignara della tradizione e del costume di uno sport bellissimo, che dovrebbe salvaguardare la sua biodiversità.
Non essendo ancora, per sua fortuna, il calcio o la Formula Uno.
Comunque, per il 2017, prevediamo un salto - all'ingiù - di forse trenta gradi celsius: a Bergen, in Norvegia, che si specchia nel Mar del Nord, farà freddo... 





Simone Basso

Pubblicato il 6 Ottobre 2016 da Il Giornale del Popolo

sabato, settembre 10, 2016

New York 2001 - La Partita (di Simone Basso)

"Un incontro come questo si riduce a pochi colpi. E' il difficile e il bello della situazione. Pete ha giocato alla grande i punti decisivi, è stato frustrante per me ma sono orgoglioso di averne fatto parte."
(Andre Agassi)

Il quarto di finale tra Pete Sampras e Andre Agassi agli US Open 2001 fu il loro trentaduesimo incontro.
Una rivalità iconica, che abbracciò interamente un'epoca e una generazione, l'ultima caratterizzata dall'egemonia americana.
Se, nella storia dei confronti diretti, Pete era avanti 17 a 14, Andre era in striscia aperta da tre partite.
Era evidente, osservando quella stagione, opposti alle nuove leve (Safin, Hewitt, Federer, Roddick..), la resilienza gagliarda di Agassi (classe 1970) rispetto al lento declino (dovuto soprattutto agli infortuni) del trentenne Sampras.
Eppure il DecoTurf newyorchese, brutto, sporco e cattivo, parve riportare i due al centro dell'attenzione (e del pronostico) di tutti.
Una finale di giovedì?
Flipper, testa di serie numero due del tabellone, negli ottavi liquidò - con sorprendente facilità (6/1 6/2 6/4) - l'emergente Roger Federer, ovvero colui che a Wimbledon battè Sampras in un thriller di cinque set.
Pistol Pete, dieci del draw (l'anno precedente era il due), regolò Patrick Rafter (6/3 6/2 6/7 6/4) in un'esibizione amarcord di serve and volley.

Fin dalla vernice del match, nel prime time serale della CBS, si comprese il momento di grazia (esaltante per gli spettatori..) dei duellanti.
Dall'apparizione nel circuito ATP, Andreino e Pietro sembravano opposti in ogni cosa.
Il kid di Las Vegas estroverso, circense, eccessivo, quasi a compensare un rapporto irrisolto col padre drago e se stesso.
Il figlio di immigrati greci invece introverso, silenzioso, antipersonaggio per eccellenza dello sport a stelle e strisce: Tim Duncan con la Wilson in mano.
Il tennis di pressione continua, creato dall'anticipo perenne di entrambi i colpi da fondo campo, di Agassi: il giocatore più rivoluzionario, forse di sempre, che preconizzò i tempi.
Le verticalizzazioni feline, supportate da uno chassis atletico da guardia NBA, di Sampras: il penultimo Campionissimo, prima di Federer, neoclassico.
Che univa i gesti bianchi all'ultraviolenza del gioco moderno.
Con Agassi finì la concezione del tennis a mò di dialogo balistico con l'avversario.
L'altro diventò un burattino da sommergere di accellerazioni dal fondo.
Agassi era Agassi senza le luxilon e l'omologazione delle superfici: nacque (..) così, una macchina sparapalle, Flipper appunto.
Pistol Pete era sciabola e fioretto assieme, la reincarnazione ellenica di Pancho Gonzales: power tennis che alternava brutalità e purezza.
La somma dei due ras, nei testa a testa, sorpassava la logica matematica.
Uno portava l'altro oltre i limiti e viceversa: entravano entrambi nella zona.
La sfida di quella notte di tarda estate diventerà l'esempio più alto.

Agassi partì fortissimo e Sampras dovette adattarsi.
L'aspetto più sorprendente della partita, rivedendola anche a tre lustri di distanza, fu la qualità elevatissima, a dispetto del ritmo frenetico.
Andre e Pete salirono di livello e rimasero lassù per più di tre ore.
Il tempo, gli angoli, la linea di fondo, appartenevano a Flipper; le variazioni e la rete a Pistol Pete: seguendo il movimento di un immaginario pendolo, a ogni scambio, uno mangiava il cemento dell'altro.
Fu una volée di rovescio sbagliata, nemmeno difficile per le usanze del greco nato nel Maryland, a consegnare il primo parziale al kid di Las Vegas.
Si era e si arriverà solamente (..) al tie-break, suggello di un equilibrio totale, straniante.
Sampras sembrò vulnerabile nel secondo set, ma si difese da leone nei momenti cruciali.
La sua prima di servizio calò da un incredibile settanta per cento al quarantasette: Pete, in pericolo, si difese attaccando.
E fu ancora una volée di rovescio, stavolta vincente, estratta dalla pancia su un passante pesantissimo di Andreino, a siglare la parità.
Agassi, all'Open americano, dopo essersi imposto nel primo set, si era aggiudicato quarantanove dei precedenti cinquanta incontri.
Contro Sampras la storia, non solo statistica, mutò.



2002, Foro Italico, Roma.
Andre Agassi provò le corde monofilamento sulla sua Head.
Trenta minuti di pallate e una sentenza: "Troppo facile colpire. Dovrebbero abolirle."
Chissà cosa accadrebbe oggi, a rimettere quei due in campo nel tennis contemporaneo, tra luxilon e omologazione delle superfici e degli stili.
Molto probabilmente, in un gioco più standardizzato e meno veloce, i rapporti di forza si invertirebbero.
Sulla terba nì, sull'hard court di sicuro.

Nell'incontro perfetto, quattro parziali senza break, tutti e due servirono ventiquattro volte: Sampras estese il bordone, cominciato nel secondo turno, di settantadue turni di servizio consecutivi senza perderlo.
Una palla break, nel quarto, Pistol Pete la annullò con un ace di seconda: a 190 chilometri orari sulla riga.
La chiave tecnica della partita?
Il rovescio del greco, solitamente discontinuo, quella sera produsse meraviglie
.
Agassi, straordinario nella pressione da dietro, commise solo diciannove errori non forzati, otto dei quali però nei tie-break.
Quelli nel quarto spostarono - definitivamente - l'inerzia: avanti 3/1 e battuta, Flipper affossò un diritto (facile: per lui) in rete.
Sotto 3/5, sbagliò un backhand, semplice, al volo.
La conclusione, su un altro errore di diritto di Agassi, consegnò il duello alla storia del tennis.
Per la cronaca: 6/7 (7/9) 7/6 (2) 7/6 (2) 7/6 (5)
.
Il boato della folla all'Arthur Ashe Stadium si riverberò negli ascolti televisivi: la media di case collegate negli States (3,42 milioni) divenne la più alta di sempre registrata.
Sampras, in finale, si sarebbe arreso al robotennis di Lleyton Hewitt e al supersaturday - nelle gambe.. - del dì prima.
Il Viale del Tramonto, che sembrava patetico, fu dolcissimo: l'anno seguente, a sorpresa ma non troppo, proprio contro Andreino, si prese il suo quinto US Open e chiuse lì.
Agassi, nel 2003, in Australia, avrebbe conquistato l'ottavo e ultimo major della carriera.
L'ultimissimo acuto Slam, trentacinquenne, ancora in quel di Flushing Meadows (2005) in finale contro Roger Federer, quando perse con l'onore delle armi.



Nei quattordici anni di rivalità tra i pro, il rendez vous agli US Open 2001 fu la loro contesa più lunga per durata (3 ore e 32 minuti), punti (338) e giochi (52).
I due combinarono per 135 vincenti, 43 aces (il dato di Agassi - 18 - rappresentò il migliore negli head to head contro Sampras).
Di tutte le cifre ricavate dall'incontro, il 96 su 137 di Pistol Pete nelle discese a rete - opposto a Flipper! - ha qualcosa di inspiegabile.
Le statistiche, accuratissime, non spiegano l'andamento quasi soprannaturale della sfida.
Una sensazione che si ebbe allora, in diretta, e che non viene scalfita dopo l'ennesima visione.

Il 6 Settembre 2001, a New York, si giocò la partita più importante di sempre.
Il martedì seguente la fine del torneo, due aerei di linea dirottati da un gruppo, prevalentemente saudita, si schiantarono contro il World Trade Center.
L'immagine delle Twin Towers in fumo, che crollano, delle persone rinchiuse là dentro arse vive o che si tuffano dalle finestre, segnerà la psiche collettiva del mondo.
Il terrorismo, da fenomeno locale - analogico, totalizzante ma lontano dagli occhi - divenne globale, digitale e virulento.
L'11 Settembre 2001, nella Grande Mela, cominciò il ventunesimo secolo.

Simone Basso

Pubblicato da Il Giornale del Popolo il 6 Settembre 2016

mercoledì, agosto 17, 2016

Tennis Pallini di Rio di Simone Basso

Pallini a volontà sul tennis a Rio, dopo una settimana di pallate.
Appunti semiseri di un torneo preso da tutti molto seriamente, anche fin troppo.

L'argento olimpico di Timea Bacsinszky e Martina Hingis nel doppio femminile, sconfitte in finale (4/6 4/6) dalla coppia russa Ekaterina Makarova ed Elena Vesnina, tipico combo quantitativo di questo evo, ha qualcosa del rendez vous romantico.
Gemelle diverse, anche nei risultati, il dinamico duo elvetico è uno specchio delle dinamiche del tennis moderno.
Bambine prodigio, Martina oltre ogni immaginazione del concetto stesso, e poi - in fasi differenti della carriera: Hingis all'apogeo, Timea alla vernice - incapaci di gestire la pressione delle aspettative.
Entrambe, a osservarle anche distrattamente, paiono nate con la comprensione istintiva (e l'istinto è intelligenza cristallizzata) e naturale del gioco.
Ormai trentaseienne, Hingis evolve (e talvolta incanta) a quasi vent'anni da quando, nel 1997, divenne la più forte adolescente di sempre nella Wta.
Timea si è ricostruita una vita tennistica, oggi è numero quindici delle classifiche: nemmeno tre stagioni fa era in una scuola alberghiera a imparare un mestiere, uno vero (..).
Le MarTimi in Brasile sono arrivate all'atto conclusivo nella maniera più rocambolesca possibile, annullando due match point contro le ceche Hlavackova e Hradecka in semi (5/7 7/6 6/2).
Hingis, per aggiungere danno alla beffa, è pure riuscita - involontariamente - a rompere l'orbita sinistra alla Hlavackova in uno scambio a distanza ravvicinata.
A vederle sul podio, felici, più bambine di quello che l'anagrafe attesti, ci sovviene un aforisma di Carmelo Bene.
"Il talento fa quello che vuole, il genio fa quello che può."

Nel trionfo dell'enfasi, un (banale?) primo turno all'Olympic Tennis Centre è stato l'epicentro di tutto, forse (addirittura..) della stagione intera.
O la semplice conferma di ciò che ribadiamo da almeno un lustro: lo star system, l'omologazione dello stile (..) e delle superfici, i tabelloni protetti.
E l'assenza forzata, causa infortuni, di alcuni elementi.
Le statistiche accumulate dai mammasantissima di oggi, nel paragone sbilenco e ossessivo col passato, non hanno lo stesso valore qualitativo di quelle dell'altroieri.
Juan Martin del Potro, 141 del mondo per il calcolatore ATP (nei panni farseschi di Hal 9000), che elimina Novak Djokovic (7/6 7/6) è una nemesi della presunta Era dell'Oro.
Su un cemento colloso, lento, che esasperava il rimbalzo e la violenza dei colpi, i diritti balestra dell'argentino hanno smontato il tennis percentuale, di difesa attiva, del serbo.
Al di là delle lacrime (umanissime) di RoboNole, non al cento per cento da Maggio (Roma), l'exploit di Del Po ha fatto capire a molti quanto sia stata pesante (e decisiva) la sua assenza in questi anni.
Un pò del curriculum sontuoso dei cosiddetti Big Four, una forzatura storica e di marketing, si deve all'anabasi chirurgica (tre operazioni al polso sinistro) di Del Po.
Il vero rivale generazionale di Djokovic e Murray, uno che vinse Flushing Meadows battendo (cortesia anche del Super Saturday televisivo..) Roger Federer: era il 2009, ancora ventenne.
Mettiamoci pure, nel conto, la mononucleosi di Robin Soderling: aveva ventisette primavere quando si ammalò.
Due corazzieri, non mobilissimi lateralmente, ma a loro agio - con un power tennis brutale - sull'hard court rallentato e il rosso scorrevole imposto dall'ATP e dai Federali.
Del Potro poi, quarantuno vincenti in appena due parziali il lunedì della resurrezione, opposto al miglior difensore del circuito, ha sempre mostrato - nelle grandi occasioni - l'animus pugnandi richiesto da certe contese.
Esattamente ciò che non è stato, e mai sarà, a dispetto del paio di Slam vinti, Stan Wawrinka: hardware pazzesco ma software difettoso, il vodese.
Chissà se, con quel forehand spacca tutto, aggiustato il rovescio bimane (con il back), Giovanni Martino non possa regalarsi - nel futuro prossimo - un'altra avventura major.

Tante le discussioni sul ruolo del tennis alle Olimpiadi.
Degli sport professionistici, ovvero quelli che vivono di un immaginario - consolidato - esterno all'epica dei Cinque Cerchi, rimane a metà ma tende (virtuoso) al ciclismo e alla pallacanestro.
Le discipline che meglio hanno assorbito (e sfruttato) la vetrina, non solo mediatica.
Ecco, non avendo la marginalità - voluta.. - del golf e del calcio, i calendari giocano un ruolo ambiguo.
I ras, soprattutto se in là con l'età, alla tournée ci tengono e non poco; il problema è l'effetto hamburger, l'ammassarsi di date e tornei.
Le Olimpiadi rivitalizzano la funzione e l'importanza del doppio: specialità, in altri momenti dell'anno, decadente e contigua al Senior Tour.
Il singolare dovrà invece trovare uno sbocco regolamentare (leggasi punteggi) per consolidare la fresca tradizione.
Rio de Janeiro, al netto delle emozioni (ma ne regalerebbe, in quel contesto, pure la corsa nei sacchi..), non è stata Londra 2012.
Mancavano l'All England Club e molti campioni (Federer in primis).
Giocare dopo lo zenith, Wimbledon, sarebbe l'ideale se non ci fossero - dietro l'angolo - le US Open Series e New York.
Il risultato, nelle fattezze, è stato un Mille così così, una Coppa Davis alla rinfusa, o un Cinquecento di lusso, Dubai con più pubblico e meno soldi.
Pensando a Tokyo 2020, i Sindacati e l'ITF dovranno riscrivere l'abbrivio al mese di Agosto: onde evitare che si preferiscano (persino a ragione) Toronto e Montreal.

Andy Murray doppia l'oro, qualche settimana dopo il bis di Wimby.
Muzza non perde un incontro dalla finale (vincibilissima..) del Roland Garros: fanno 46-6 da inizio zero sedici e l'intermedio, una striscia di diciotto vittorie consecutive, è a dir poco eloquente.
Eppure, a mò di manifesto di un resistibile robotennis, ogni successo sembra sottolineare una contraddizione.
Del Potro, battuto 7/5 4/6 6/2 7/5, è parso arrendersi, oltre che alla resilienza (ammirevole) dello scozzese, alle oltre tre ore di corpo a corpo col solito Rafa Nadal (l'Mvp della settimana sudamericana..) in semifinale.
Andy ama vincere complicandosi le cose: nel quarto set, contro un avversario visibilmente stanco, batteva in testa.
Muzza è l'ultimo dei Primissimi: psicologicamente, il linguaggio del corpo eccessivo, isterico, e dunque nell'agone.
Perfetto per inquadrare un'epoca: manina fatata, il migliore della crema dopo Federer, dotato di angoli e colpi Mecireschi, preferisce il tergicristallo, la fase orizzontale, ancorato alla riga di fondo, piuttosto che un tennis di offesa.
Però, tra gli acciacchi degli altri tre, il ginocchio e l'età di Roger, il polso e l'usura di Rafa e Nole, e l'inconsistenza degli eterni giovani, Muzza rischia (..) di accumulare un tesoro niente male.

Gli ultimi mesi di WTA, diremmo dal Serenicidio di Roberta Vinci allo US Open 2015, sono stati folli.
Le montagne russe, aspettando la prossima numero uno (Keys, Muguruza o Bencic?), col biglietto giusto nelle mani di un'outsider.
Se la Williams non riesce più a fare la Williams, e l'assioma si è verificato solamente a Wimbledon, la competizione diventa un terno al lotto.
A un passo da Copacabana, sono stati i giorni di gloria di Monica Puig, che ha regalato a Porto Rico il primo alloro olimpico di sempre.
L'amazzone di Miami è uno stereotipo, alquanto gradevole, del tennis rosa contemporaneo.
Pratica un gioco estremo, poco cerebrale, a tutto braccio: nei dì mediocri una sciagura, in quelli fortunati un'iradiddio.
Puig è riuscita a piegare - a forza di winners: diritti, rovesci, smorzate, verticalizzazioni - persino Petra Kvitova e Angelique Kerber.
Se l'umiliazione di Garbine Muguruza (6/1 6/1) appariva una primula rossa, la finalissima è stata la conferma dello stato di grazia.
La tedesca, sabato, in forma, favorita per rango e abitudine alle alte quote, non ha retto alle bordate dell'ispanica (6/4 4/6 6/1).
Che, dal trionfo a Rio, classe 1993, potrebbe sbloccarsi e mettere assieme un palmarès da campionessa.
O, in alternativa, spentasi definitivamente l'euforia, divenire la comparazione femminile dei Marc Rosset e Nicolàs Massù che furono.

Ai più distratti sarà sfuggito il bronzo conquistato da Radek Stepanek nel doppio misto, una certezza (sic) considerando il soggetto, in coppia con Lucie Hradecka.
Il duo boemo si è imposto sugli indiani Mirza e Bopama (6/1 7/5): l'ennesimo scalpo di un veterano, il buon Radek, indifferente ai suoi trentasette anni e a un tennis per lui irriconoscibile.
Giocatore anni Ottanta sbalzato, per errore, in un periodo che impone la standardizzazione di ogni elemento.
Stepanek è un panda, per atteggiamento e tecnica: provocatore, guascone; stilisticamente diseguale (quel rovescino bimane..) ma efficace.
Il ceco tocca la palla, anticipa e forza gli scambi, va a rete da Maestro: i robotennisti, in singolare, anche i fuori categoria, rischiano sempre il quarto d'ora di figuracce, alle prese con gesti - altrui - desueti quanto produttivi.
La nostalgia preventiva che ci assale, al limitare del canto del cigno degli ultimi che non crebbero con una racchetta monofilamento in mano, è più forte per i Radek Stepanek che un Federer.
Poichè il Mago Merlino, la sua parabola (estetica e da Campionissimo), è irripetibile.
Invece quelli come Radek erano lo zucchero nel caffè, gli specialisti che gustavi d'estate (sull'erba) e d'autunno (sul sintetico indoor).
I procteriani ci hanno impedito di vedere altri Stepanek ma, l'originale, non ha ancora esaurito le voglie.
E non intendiamo le sue conquiste amorose, innumerevoli anche nell'ambito tennistico: Hingis, Vaidisova, Kvitova.
Ha pure giurato che non si fidanzerà più con un'altra collega: promessa da marinaio, anche se non sapesse nuotare.

Simone Basso

Pubblicato il 16 Agosto 2016 da Il Giornale del Popolo

martedì, agosto 02, 2016

Olimpiadi Rio De Janeiro 2016 - I Paesi Partecipanti (206+1)

Mancano poche ore al via delle Olimpiadi di Rio de Janeiro 2016. Come avvenuto per Londra 2012, per seguire al meglio la cerimonia d'apertura, in programma alle ore 01.00 di sabato 6 agosto (orario italiano), ecco l'elenco completo dei Paesi partecipanti ai Giochi Olimpici 2016. Una guida utile anche per individuare a quale nazione corrisponde quella sigla di tre lettere che comparirà in grafica durante le varie gare.
Le nazioni, anzi, per meglio dire i comitati olimpici rappresentati a Rio 2016 sono 206 +1. Non sempre infatti, l'indipendenza a livello CIO significa indipendenza o autonomia a livello di Stato. Due esempi in tal senso possono essere Aruba (dipendente dai Paesi Bassi) e Samoa Americane (territorio non indipendente), presenti a Rio con i loro atleti ma non indipendenti a livello costituzionale.
Il comitato olimpico +1 è rappresentato dai cosiddetti "Atleti rifugiati". Una novità voluta dal CIO per lanciare un messaggio di speranza alle persone e agli atleti vittime di persecuzioni e violenza, anche e soprattutto a causa delle condizioni di guerra del loro Paese d'origine. A Rio saranno presenti 10 atleti rifugiati: un nuotatore e una nuotatrice siriani, due judoka della Repubblica Democratica del Congo, cinque atleti del Sudan del Sud e un maratoneta etiope.

ORDINE SFILATA CERIMONIA D'APERTURA - Come da tradizione la sfilata della cerimonia inaugurale avverrà in ordine alfabetico secondo la lingua della nazione ospitante (in questo caso il portoghese). Le uniche eccezioni sono rappresentate dalla prima nazione che, come da tradizione, sarà la Grecia e dall'ultima, vale a dire dal Brasile, Paese ospitante. La penultima "nazione" a sfilare sarà quella degli Atleti Rifugiati.
Ed ecco l'elenco completo dei Paesi partecipanti alle Olimpiadi di Rio de Janeiro 2016 con relativo ordine di sfilata nella Cerimonia d'apertura di venerdì 5 agosto 2016Nell'elenco compaiono nell'ordine: nome in inglese nazione, Sigla internazionale, Nome in portoghese (da cui discende l'ordine di sfilata), portabandiera e relativa disciplina (ove comunicato in data odierna):

1 Greece (GRE) Grécia   Sofia Bekatorou Vela
2 Afghanistan (AFG) Afeganistão   Kamia Yousufi Atletica
3 South Africa (RSA) África do Sul   Wayde van Niekerk Atletica
4 Albania (ALB) Albânia Luiza Gega   Athletics
5 Germany (GER) Alemanha
6 Andorra (AND) Andorra   Laura Sallés Judo
7 Angola (ANG) Angola   Luísa Kiala Handball
8 Former Yugoslav Republic of Macedonia (MKD) Antiga República Iugoslava da Macedônia  Anastasija Bogdanovski Swimming
9 Antigua and Barbuda (ANT) Antígua e Barbuda
10 Saudi Arabia (KSA) Arábia Saudita
11 Algeria (ALG) Argélia   Sonia Asselah Judo
12 Argentina (ARG) Argentina  Luis Scola Basket
13 Armenia (ARM) Armênia  Vahan Mkhitaryan Nuoto
14 Aruba (ARU) Aruba
15 Australia (AUS) Austrália   Anna Meares Ciclismo
16 Austria (AUT) Áustria   Liu Jia Tennistavolo
17 Azerbaijan (AZE) Azerbaijão   Teymur Mammadov Boxe
18 Bahamas (BAH) Bahamas
19 Bahrain (BRN) Bahrein
20 Bangladesh (BAN) Bangladesh   Siddikur Rahman Golf
21 Barbados (BAR) Barbados
22 Belarus (BLR) Belarus   Sergei Martynov Tiro a segno
23 Belgium (BEL) Bélgica
24 Belize (BIZ) Belize  Brandon Jones Atletica
25 Benin (BEN) Benim
26 Bermuda (BER) Bermudas
27 Bolivia (BOL) Bolívia  Ángela Castro Atletica
28 Bosnia and Herzegovina (BIH) Bósnia e Herzegovina  Amel Tuka Atletica
29 Botswana (BOT) Botsuana
30 Brunei Darussalam (BRU) Brunei Darussalam
31 Bulgaria (BUL)  Bulgária Ivet Lalova Atletica
32 Burkina Faso (BUR) Burkina Faso
33 Burundi (BDI) Burundi
34 Bhutan (BHU) Butão
35 Cape Verde (CPV) Cabo Verde
36 Cameroon (CMR) Camarões   Wilfried Ntsengue Boxe
37 Cambodia (CAM) Camboja   Sorn Seavmey Taekwondo
38 Canada (CAN) Canadá  Rosannagh MacLennan Ginnastica Artistica
39 Qatar (QAT) Catar
40 Kazakhstan (KAZ) Cazaquistão  Ruslan Zhaparov Taekwondo
41 Chad (CHA) Chade Bibiro  Ali Taher Atletica
42 Chile (CHI) Chile  Érika Olivera Atletica
43 Cyprus (CYP) Chipre  Pavlos Kontides Vela
44 Singapore (SIN) Cingapura  Derek Wong Zi Liang Badminton
45 Colombia (COL) Colômbia  Jossimar Calvo Ginnastica Artistica
46 Comoros (COM) Comores
47 Congo (CGO) Congo
48 Ivory Coast (CIV)  Costa do Marfim Murielle Ahouré Atletica
49 Costa Rica (CRC) Costa Rica  Nery Brenes Atletica
50 Croatia (CRO) Croácia   Josip Pavić Pallanuoto
51 Cuba (CUB) Cuba  Mijaín López Lotta
52 Denmark (DEN) Dinamarca  Caroline Wozniacki Tennis
53 Djibouti (DJI) Djibuti
54 Dominica (DMA) Dominica
55 Egypt (EGY) Egito  Alaaeldin Abouelkassem Scherma
56 El Salvador (ESA)  El Salvador Lilian Castro Tiro a segno
57 United Arab Emirates (UAE) Emirados Árabes Unidos  Nada Al-Bedwawi Nuoto
58 Ecuador (ECU) Equador  Andrés Chocho Atletica
59 Eritrea (ERI) Eritreia
60 Slovakia (SVK) Eslováquia  Danka Barteková  Tiro a segno
61 Slovenia (SLO)  Eslovênia Vasilij Žbogar Vela
62 Spain (ESP) Espanha  Rafael Nadal Tennis
63 Federated States of Micronesia (FSM) Estados Federados da Micronésia Jennifer Chieng Boxe
64 United States of America (USA) Estados Unidos da América
65 Estonia (EST) Estônia
66 Ethiopia (ETH) Etiópia
67 Russian Federation (RUS) Federação Russa  Sergey Tetyukhin Pallavolo
68 Fiji (FIJ) Fiji   Osea Kolinisau Rugby a 7
69 Philippines (PHI) Filipinas  Ian Lariba Tennistavolo
70 Finland (FIN) Finlândia
71 France (FRA) França  Teddy Riner  Judo
72 Gabon (GAB) Gabão
73 Gambia (GAM) Gâmbia  Gina Bass Atletica
74 Ghana (GHA) Gana
75 Georgia (GEO) Geórgia  Avtandil Tchrikishvili Judo
76 Great Britain (GBR) Grã-Bretanha
77 Grenada (GRN) Granada
78 Guam (GUM) Guam
79 Guatemala (GUA) Guatemala  Ana Sofía Gómez  Ginnastica
80 Guyana (GUY) Guiana
81 Guinea (GUI) Guiné
82 Guinea-Bissau (GBS) Guiné-Bissau
83 Equatorial Guinea (GEQ) Guiné Equatorial
84 Haiti (HAI) Haiti  Asnage Castelly Lotta
85 Honduras (HON) Honduras  Rolando Palacios Atletica
86 Hong Kong, China (HKG) Hong Kong, China  Stephanie Au Nuoto
87 Hungary (HUN) Hungria  Áron Szilágyi[52] Scherma
88 Yemen (YEM) Iêmen
89 Cayman Islands (CAY) Ilhas Cayman
90 Cook Islands (COK) Ilhas Cook  Ella Nicholas Canoa
91 Marshall Islands (MHL) Ilhas Marshall
92 Solomon Islands (SOL) Ilhas Salomão
93 Virgin Islands (ISV) Ilhas Virgens Americanas
94 British Virgin Islands (IVB) Ilhas Virgens Britânicas
95 India (IND) Índia  Abhinav Bindra Tiro
96 Indonesia (INA) Indonésia  Maria Natalia Londa Atletica
97 Iraq (IRQ) Iraque  Waheed Abdul-Ridha Boxe
98 Ireland (IRL) Irlanda  Paddy Barnes                                                                                                 99 99 Iceland (ISL) Islândia
100 Israel (ISR) Israel Neta Rivkin
101 Italy (ITA) Itália  Federica Pellegrini Nuoto
102 Jamaica (JAM) Jamaica  Shelly-Ann Fraser-Pryce Atletica
103 Japan (JPN) Japão  Keisuke Ushiro Atletica
104 Jordan (JOR) Jordânia
105 Kiribati (KIR) Kiribati
106 Kosovo (KOS) Kosovo Majlinda Kelmendi Judo
107 Kuwait (KUW) Kuwait
108 Lesotho (LES) Lesoto
109 Latvia (LAT) Letônia Māris Štrombergs  Ciclismo
110 Lebanon (LIB) Líbano Nacif Elias Judo
111 Liberia (LBR) Libéria
112 Libya (LBA) Líbia
113 Liechtenstein (LIE) Liechtenstein
114 Lithuania (LTU) Lituânia  Gintarė Scheidt Vela
115 Luxembourg (LUX) Luxemburgo
116 Madagascar (MAD) Madagascar Asaramanitra Ratiarison Judo
117 Malaysia (MAS) Malásia Lee Chong Wei Badminton
118 Malawi (MAW) Malauí
119 Maldives (MDV) Maldivas  Aminath Shajan Nuoto
120 Mali (MLI) Mali
121 Malta (MLT) Malta  Andrew Chetcuti Nuoto
122 Morocco (MAR) Marrocos  Abdelkebir Ouaddar Equitazione
123 Mauritius (MRI) Maurício Kate Foo Kune Badminton
124 Mauritania (MTN) Mauritânia
125 Mexico (MEX) México Daniela Campuzano Ciclismo
126 Mozambique (MOZ) Moçambique
127 Monaco (MON) Mônaco Yann Siccardi  Judo
128 Mongolia (MGL) Mongólia  Temuulen Battulga Judo
129 Montenegro (MNE) Montenegro Bojana Popović Pallamano
130 Myanmar (MYA) Myanmar
131 Namibia (NAM) Namíbia
132 Nauru (NRU) Nauru
133 Nepal (NEP) Nepal Phupu Lhamu Khatri Judo
134 Nicaragua (NCA) Nicarágua Rafael Lacayo Tiro
135 Niger (NIG) Níger  Abdoul Razak Issoufou Taekwondo
136 Nigeria (NGR) Nigéria  Olufunke Oshonaike Tennistavolo
137 Norway (NOR) Noruega
138 New Zealand (NZL) Nova Zelândia
139 Oman (OMA) Omã
140 Netherlands (NED) Países Baixos
141 Palau (PLW) Palau
142 Palestine (PLE) Palestina
143 Panama (PAN) Panamá Alonso Edward Atletica
144 Papua New Guinea (PNG) Papua-Nova Guiné  Ryan Pini Nuoto
145 Pakistan (PAK) Paquistão
146 Paraguay (PAR) Paraguai  Julieta Granada Golf
147 Peru (PER) Peru  Francisco Boza Tiro
148 Poland (POL) Polônia  Karol Bielecki Pallamano
149 Puerto Rico (PUR) Porto Rico  Jaime Espina Lotta
150 Portugal (POR) Portugal  João Rodrigues Vela
151 Kenya (KEN) Quênia
152 Kyrgyzstan (KGZ) Quirguistão  Erkin Adylbek Uulu Boxe
153 Central African Republic (CAF) República Centro-Africana
154 Republic of Korea (KOR) República da Coreia  Gu Bon-gil Scherma
155 Republic of Moldova (MDA) República da Moldávia Nicolae Ceban Lotta
156 Democratic Republic of the Congo (COD) República Democrática do Congo Rosa Keleku Taekwondo
157 Dominican Republic (DOM) República Dominicana  Luguelín Santos Atletica
158 Islamic Republic of Iran (IRI) República Islâmica do Irã Zahra Nemati Tiro con l'arco
159 People's Republic of China (CHN) República Popular da China
160 Democratic People's Republic of Korea (PRK) República Popular Democrática da Coreia
161 Lao People's Democratic Republic (LAO) República Popular Democrática do Laos
162 Czech Republic (CZE) República Tcheca
163 Romania (ROU) Romênia Cătălina Ponor Ginnastica
164 Rwanda (RWA) Ruanda Adrien Niyonshuti Ciclismo
165 Samoa (SAM) Samoa
166 American Samoa (ASA) Samoa Americana
167 San Marino (SMR) San Marino Arianna Perilli Tiro a volo
168 Saint Lucia (LCA) Santa Lúcia
169 Saint Kitts and Nevis (SKN) São Cristóvão e Névis
170 São Tomé and Príncipe (STP) São Tomé e Príncipe Romário Leitão Atletica
171 Saint Vincent and the Grenadines (VIN) São Vicente e Granadinas
172 Senegal (SEN) Senegal Isabelle Sambou Lotta
173 Sierra Leone (SLE) Serra Leoa
174 Serbia (SRB) Sérvia Ivana Maksimović Tiro
175 Seychelles (SEY) Seychelles Rodney Govinden Vela
176 Syria (SYR) Síria
177 Somalia (SOM) Somália
178 Sri Lanka (SRI) Sri Lanka Anuradha Cooray Atletica
179 Swaziland (SWZ) Suazilândia
180 Sudan (SUD) Sudão
181 South Sudan (SSD) Sudão do Sul
182 Sweden (SWE) Suécia
183 Switzerland (SUI) Suíça
184 Suriname (SUR) Suriname
185 Thailand (THA) Tailândia  Ratchanok Intanon Badminton
186 Chinese Taipei (TPE) Taipé Chinês
187 Tajikistan (TJK) Tajiquistão Dilshod Nazarov Atletica
188 Tanzania (TAN) Tanzânia
189 Timor-Leste (TLS) Timor-Leste
190 Togo (TOG) Togo  Adzo Kpossi Nuoto
191 Tonga (TGA) Tonga  Pita Taufatofua Taekwondo
192 Trinidad and Tobago (TTO) Trinidad e Tobago
193 Tunisia (TUN) Tunísia  Oussama Mellouli Nuoto
194 Turkmenistan (TKM) Turcomenistão
195 Turkey (TUR) Turquia
196 Tuvalu (TUV) Tuvalu  Etimoni Timuani Atletica
197 Ukraine (UKR) Ucrânia
198 Uganda (UGA) Uganda
199 Uruguay (URU) Uruguai  Dolores Moreira Vela
200 Uzbekistan (UZB) Uzbequistão  Bakhodir Jalolov Boxe
201 Vanuatu (VAN) Vanuatu Yoshua Shing Tennistavolo
202 Venezuela (VEN) Venezuela Rubén Limardo Scherma
203 Vietnam (VIE) Vietnã Vũ Thành An Scherma
204 Zambia (ZAM) Zâmbia
205 Zimbabwe (ZIM) Zimbábue Gabriel Mvumvure Atletica
206 Refugee Olympic Athletes (ROA) Atletas Olímpicos Refugiados Yusra Mardini Nuoto
207 Brazil (BRA) Brasil  Yane Marques Penthatlon Moderno


martedì, luglio 26, 2016

Tris Froome di Simone Basso

La centotreesima edizione del Tour de France finisce all'insegna dei deja vu: i Campi Elisi, bellissimi e affollati, malgrado i tempi della guerra liquida contro nemici indefinibili, la sfilata - meritata - dei corridori e la maglia gialla indossata da un britannico (apolide) del Team Sky, la squadra migliore col capitano migliore.

Chris Froome, terza Grande Boucle nel palmarès, se potesse dirlo, vi racconterebbe che pure nel 2012, quando fece da paggio a Sir Bradley Wiggins, era il più forte.
Di sicuro, il gregariato a Wiggo gli costò la Vuelta 2011: la corsa che lo rivelò sul proscenio internazionale. Erano passati solo quattro anni ma parevano eoni da quando, al Giro delle Regioni 2007, competizione italiana "dilettanti" allora importantissima, lo vedemmo imporsi in una tappa - a Montepulciano - di pura forza. Prendendo a calci la bici. Il successo esotico di un ciclista intruppato nella Mista Africana (sic). E che perse la Generale perchè non sapeva stare in gruppo; la vinse Rui Costa e c'erano anche Bauke Mollema, Simon Clarke, Grega Bole...

Chi si lamenta dello spettacolo dei migliori, di quelli per il giallo, o è in malafede oppure ha una memoria difettosa: storicamente, se il Tourannosauro è accompagnato dalla salute e da uno squadrone, la competizione è sempre la stessa. Si corre per le posizioni, i Primi Dieci, soprattutto se - come accade quasi sempre alla Festa di Luglio - l'agonismo è folle, si va à bloc dalla partenza, e il tracciato è molto (troppo?) esigente.
Succede quello che si è visto nella Berna-Finhaut Emosson, la frazione chiave (tutta svizzera): cinquantuno e otto nella prima ora, il plotone dei ras a palla sulle (due) salite, una selezione impietosa dietro e gli attaccanti che rimbalzano (di fatica).
Le medie esagerate di questo Tour (o dell'ultimo Giro) producono il risultato di pochi scatti nella crema, colle gambe intossicate, una conseguenza estetica (..) del Passaporto Biologico.
Se poi l'equipe del patron tende alla Ti-Raleigh 1980, il supercombo (Knetemann, Raas, Van der Velde, Oosterbosch, Lubberding, etc.) che scortò un declinante Joop Zoetemelk al trionfo, per gli avversari le cose diventano maledettamente complicate. Degli scudieri in nero e blu sottolineiamo le performance di Wout Poels che, con una Liegi-Bastogne-Liegi in tasca, sarà uno dei favoriti della gara in linea olimpica nonchè, si sussurra, uno degli uomini mercato del 2017.
Poi, al resto (che è tanto..), ci ha pensato il principe ranocchio; uno sgobbone che, nella versione zerosedici, è parso allo zenith della maturità psicofisica.
Sempre davanti, in prima fila, e capace di improvvisare scendendo - con una vena di follia - il Peyresourde o seguendo Peto Sagan nei ventagli della (straordinaria) Carcassone-Montpellier: sorprendendo, di fantasia, gli altri tappisti.
Nemmeno il footing (..) negli attimi di paura e delirio verso Chalet Reynard, nel caos, o gli ultimi dieci chilometri ai piedi del Monte Bianco - col ginocchio destro sanguinante dopo una scivolata sull'asfalto bagnato - pedalati col mezzo di Geraint Thomas, lo hanno impensierito...

L'evoluzione tecnica di Froomey, bici diversa, una pedalata (alquanto peculiare..) più potente e maggiori momenti fuorisella, fa capire che - nel ciclismo contemporaneo - chi si ferma è perduto.
Il keniano bianco, trentunenne, è stato circondato (sul podio e nella classifica) dalla generazione futura; dagli atleti che, presumibilmente, caratterizzeranno i prossimi Tour.
Romain Bardet, secondo, Adam Yates, quarto (e con molti rimpianti), Louis Meintjes, settimo, e poi Fabio Aru (la batosta presa sullo Joux Plane gli servirà..), Warren Barguil, Ilnur Zakarin (quando imparerà ad andare in discesa?). Il più vecchio (..) della lista è il portacolori della Katusha (nato nel 1989). L'analisi, tenendo conto pure di Mikel Landa e Thibaut Pinot, si completa con quelli che consideriamo i (veri) ras dei Grandi Giri di domani. Tom Dumoulin, Julian Alaphilippe e, last but not least, Nairo Quintana.
L'olandese si è arrotato, banalmente, lungo la Montée de Bisanne, con Daniel Tekleheimanot, mettendo a rischio una medaglia sicura - contro il tempo - in quel di Rio. Vedremo se la frattura al radio della mano destra lo escluderà dai Cinque Cerchi. Le frazioni vinte dalla farfalla di Maastricht in Francia, prima del ritiro, sarebbero state addirittura tre se, nella Sallanches-Megève, non ci fosse stato un irresistibile Froome. Ribadiamo l'assioma: a venticinque anni, con quella classe, ha il potenziale del vincitore di una Grande Boucle.
Alaphilippe, ex ciclocrossista, sorprendente nella terza settimana (l'ennesimo segnale delle stimmate del nostro..), ci pare l'unico erede di Alejandro Valverde (protagonista, col Giro nelle gambe, di un Tour incredibile). Ovvero un fuoriclasse che possa ambire sia a una grande corsa a tappe che alle classiche di un giorno.
Annunciato da molti, noi compresi, come il favorito della Festa di Luglio, Nairo Quintana si è dovuto accontentare di un (anonimo) terzo posto.
Problemi di allergie, una forma mediocre, non gli hanno impedito il podio parigino: un esempio, contraddittorio, del talento della maglia rosa 2014. Il Condor pallido del Ventoux accorciato e delle Alpi è anche figlio di un approccio primaverile blando.
Quintana, al termine del Giro di Romandia (vittorioso) di inizio Maggio, è scomparso dai radar europei per soggiornare nella sua Colombia: al ritorno nel vecchio continente la modesta Route du Sud, breve gara a tappe sul finire di Giugno, non ha preparato a dovere l'organismo ai ritmi esagerati e allo stress psicofisico del Tour.

La selezione darwiniana della Grande Boucle valorizza i mammasantissima, manifesto programmatico è stata la zingarata verso Montpellier della maglia gialla e verde. Chi indossa - in quella maniera - il verde, se lo fa sull'arcobaleno dell'iride (e col numero rosso del Supercombattivo sulla schiena), è un fenomeno. Peter Sagan, in questo 2016, è diventato ufficialmente il capotribù del plotone. Il successo nel taboga di Berna, a casa di Cancellara, è stato una specie di passaggio di consegne. Dallo sceriffo della generazione nata negli anni Ottanta a quello attuale. La differenza è nel contorno: Spartacus ha avuto la concorrenza di campioni del livello di Boonen e Gilbert, Peto - per adesso - sembra senza rivali.
La quinta classifica a punti di fila, a un passo dalle sei di Erik Zabel, si spiega con una continuità fuori dal mondo: in cinque anni, alla Grande Boucle, sette primi posti, diciotto (!) piazze d'onore e otto terzi. Una mostruosità, agonistica e statistica, ribadita dall'atteggiamento complessivo: un gattone che gioca coi topi, in volata, sugli strappi, nelle picchiate; in fuga e in gruppo.
Il Roger De Vlaeminck nato in Slovacchia, classe 1990, ha appena cominciato la sua era: curioso, ma indicativo del suo carattere, che in Brasile il campione del mondo (su strada..) si misuri nella prova di mountain bike.

Nell'anno dell'addio di Fabian Cancellara, patriarca del movimento elvetico, la prestazione (notevolissima) della IAM Cycling suona a mò di beffa. A quattro mesi dalla chiusura, il combo creato da Michel Thétaz sta raccogliendo i frutti di un lavoro cominciato nel 2013. Il Jarlinson Pantano di turno, impostosi nella livrea biancarossoblu del team elvetico, se lo godranno gli altri (nel caso specifico, la Trek Segafredo).
Ci sorprende la mancanza di interesse della Confederazione: sarebbe bastato lo sforzo economico - relativo - di un imprenditore per rinnovare l'impegno dell'equipe. In Svizzera non ci sono i soldi per sfruttare l'esposizione mediatica - planetaria - che ha ricevuto IAM Cycling in questo mese di Luglio?

Nel bel mezzo del Tour, il dì seguente la baraonda del Monte Ventoso, i corridori, con le specialissime al carbonio e le tutine aderenti, hanno disputato una cronometro nell'Ardèche. Laddove trentamila anni fa, in una grotta, un uomo di Cro-Magnon dipinse una serie (ipnotica) di figure animali. Nei giorni della mattanza sulla Promenade di Nizza, il ciclismo, rito sportivo che si rinnova sulle strade, pare riportarci un pò verso la magia, il mistero, che cominciò dalla Caverna Chauvet. Nell'impazzimento dei subumani kamikaze, chiudere la rassegna dando i numeri della Grande Boucle 2016 è un sollievo...
3 - Le prime pagine consecutive dedicate a Romain Bardet da L'Equipe. Siamo terrorizzati dalle idee che l'ASO si farà venire, l'anno prossimo, per favorirlo...
30 - Le tappe vinte da Mark Cavendish: sorpassato Bernard Hinault, il primatista Eddy Merckx è a - sole? - quattro affermazioni. Sarebbe un'impresa clamorosa.
44 - I giorni in maglia gialla di Chris Froome. Il keniano bianco sta tra Antonin Magne (38) e Jacquot Anquetil (50). Ottima compagnia.
85 - La velocità massima in chilometri orari registrata da Jon Izagirre nella discesa del Col de Joux Plane. Sotto il diluvio, percorrendo una stradina di montagna: un numero da applausi.
97 - Gli anni compiuti domenica da Ferdinand Kubler, primo rossocrociato a vincere il Tour de France (1950). Una leggenda del Novecento.
174 - Gli atleti approdati ai Campi Elisi per la passerella finale. Record assoluto.
2017 - Grand Depart con una cronometro di 13 chilometri in quel di Dusseldorf. Trent'anni fa, nell'87, l'ultima partenza tedesca, a Berlino Ovest. C'erano ancora il Muro e la Germania Est...

Simone Basso

Pubblicato da Il Giornale del Popolo il 26 Luglio 2016

venerdì, luglio 01, 2016

Grande Boucle 016 - Il Tour de France 2016 presentato da Simone Basso

Centotreesima edizione del Tour de France, attesissimo - come sempre - per le storie che svilupperà e l'uno due con Rio. Amaury, la Società che l'organizza il kolossal, panem et circenses, al solito ha preparato una sceneggiatura avvincente.
Tre settimane all'insegna della grandeur e dei giganti della strada.

Basti pensare alla partenza da Mont Saint-Michel, l'isolotto della Normandia circondato dalle lune della marea, e l'arrivo della prima tappa in quel di Utah Beach. Laddove gli Alleati, settantadue anni fa, sbarcarono per liberare quelle terre dai nazifascisti. In tempi di Brexit, l'eutanasia del Regno Unito di oggi fa ancora più sensazione: su quelle spiagge ci sono ancora le impronte delle ossa dei militari inglesi.
Il Tour de France, in una realtà mediatica sempre più liquida e sfuggevole, impone invece una narrazione. Anche politica: non è questa la sede per sviluppare il tema, ma ASO si sta mangiando l'UCI...
Lo zerosedici è un ricciolo classico: percorre la nazione in senso antiorario e dunque prevede prima i Pirenei e poi le Alpi. La tradizione insegna che il settore pirenaico sarà d'attesa e quello alpino decisivo.
In mezzo, a mò di totem, il Mont Ventoux, guglia solitaria della Provenza. Con la novità di una sezione svizzera che sposterà parecchio nella Generale. I presupposti per un Luglio torrido ci sono tutti.

Grande Boucle che per la maglia gialla annuncia soprattutto un duello, più una serie di variabili, magari impazzite. Chris Froome contro Nairo Quintana.
Il Team Sky, completissimo, uno squadrone (Geraint Thomas, Landa, Poels, Kiryienka..), opposto a una Movistar d'assalto (Valverde, Moreno, Anaconda..), schierata stavolta intorno al Condor.
Il braccio di ferro, in una competizione che - in particolar modo prima delle montagne - è impossibile da controllare, avrà dinamiche spossanti. Potrebbe essere la vernice, storica, di un colombiano che certificherebbe lo zenith di un movimento dominante o il tris del britannico che si affiancherebbe a leggende (Thys, Bobet e Lemond).
Noi, dovessimo scommettere (..), propenderemmo per la prima soluzione. Le nove tappe d'alta montagna, frazioni complesse altimetricamente con gpm in serie, paiono favorire uno scalatore resistente come Quintana, piuttosto che il keniano bianco. Straordinario negli arrivi "secchi", un pò meno nella successione di salite: quest'anno, nel cuore del Tour, il solo traguardo alla Froomy ci sembra il Monte Calvo che già spianò nel 2013.
Logico che la sfida non si giochi solo sulle vette: l'abbrivio è zeppo di trabocchetti. I possibili ventagli della Tre Giorni nella Manica, con i pericoli della Saint Lo-Cherbourg en Cotentin con un finale da Classica (un drittone al quattordici percento a 1500 metri dall'arrivo). L'approccio all'insù nel centro della Francia, la Limoges-Le Lioran, il quinto dì: delle sei salite affrontate, il Puy Mary e il Col du Perthus sono i primi veri esami per i favoriti. Infine due cronometro belle toste: il 15 Luglio, con il Ventoux nelle gambe, la Bourg Saint Andéol-La Caverne du Pont d'Arc, 37 chilometri e mezzo che premiano i wattaggi e la tecnica di guida del mezzo. La tappa numero diciotto, Sallanches-Megève, una cronoscalata che termina in discesa (sic), tratti al diciassette percento e un passaggio sulla collina di Domancy resa celebre, amarcord, dal trionfo mondiale di Bernard Hinault (1980).

Il terzo uomo è Alberto Contador, all'ultimo (?) giro di giostra e pericolosissimo: uno che ama sorprendere, tatticamente, attaccando da lontano. Il Pistolero, comunque vada, sarà una garanzia per lo spettacolo.
Gli altri?
Il Thibaut Pinot ammirato tra Criterium Internazionale e Romandia sarebbe quasi da corsa, quello un pò appannato del recente Tour de Suisse affonderebbe al primo scossone. Romain Bardet, se citiamo Pinot non può mancare il rivale più acerrimo, assicura più continuità e combattività rispetto al corridore dell'Alta Saona; ma vanta meno esplosività e potenziale. Tejay Van Garderen, a proposito dell'ossessione gialla, dovrà decidersi a compiere l'ultimo salto di qualità: potrà pure dividere la pressione di co-capitano - alla BMC - con Richie Porte. Un altro con tanti punti interrogativi sulla sua tenuta (psicofisica) nella terza settimana.
La strana coppia Nibali-Aru merita uno spazio a sé.
Divisi in casa da tempo, correranno insieme la Festa di Luglio prima del ricco approdo arabo (nel 2017, in Bahrain) del siciliano. La gestione Astana, terza super equipe di questo Tour, dei due campioni italiani avrà qualcosa della sit-com: Nibali e Aru si detestano cordialmente, questa primavera, ai margini di un'intervista della Gazzetta dello Sport a Nibali, il siciliano si espresse senza troppa diplomazia ("Fabio - Aru ndr - si arrabbia spesso, diventa irascibile.. Non chiede nulla, non ti tiene in considerazione."). Il risultato, fatto sparire in cinque minuti netti per evitare un caso, fu un tweet velenoso del sardo contro il messinese.
Al di là delle ambizioni inconciliabili, Nibali da battitore libero (sempre che si accontenti di qualche giornata di gloria..) è un bel rebus per gli avversari, Aru punta almeno alla maglia bianca di miglior giovane.
Il resto è ricchissimo contorno: il miglior corridore del plotone, l'iridato Peter Sagan, tenta di aggiudicarsi la quinta classifica a punti consecutiva (?), Dan Martin verificherà il sogno di competere coi Froome e Quintana; Warren Barguil, al pari di Wilco Kelderman, Diego Rosa, Adam Yates e Julian Alaphilippe (un fenomeno..), ha un test per un futuro coi Grandi. Il livello, altissimo, si conferma nei cacciatori di tappe e negli sprinter (Boasson Hagen, Van Avermaet, Rui Costa, Dumoulin, Degenkolb, Kittel, Greipel, Kristoff, Cavendish, Matthews..).

Grande Boucle con un generoso sconfinamento in Svizzera, tre dì compreso il secondo riposo a Berna. La città federale celebrerà Fabian Cancellara, uno dei migliori atleti di sempre dello sport elvetico nonchè il più forte ciclista rossocrociato dai tempi di Koblet e Kubler. L'ultimo Tour di Spartacus coincide anche con l'ultimo della IAM Cycling e la pattuglia (sparuta) di svizzeri ci terrà a mettersi in evidenza.
Michael Albasini, per esempio, si adatta alle frazioni più complicate dell'incipit. Sottolineiamo che la diciassettesima tappa, Berna-Finhaut Emosson, che si correrà interamente - il 20 Luglio - sul territorio della Confederazione, potrebbe spostare gli equilibri della contesa. La Forclaz, uno dei passi storici, prima dell'ascesa conclusiva verso la diga di Emosson: 10,4 chilometri impegnativi, con gli ultimi ben al di sopra del dieci percento di pendenza media.

Alcune feste di Luglio col sei, nel dopoguerra, sono state epiche e imprevedibili. La teoria del caos o giù di lì.
Il 1956 è ricordato come il Tour più folle (e divertente): si impose Roger Walkowiak - forse il vincitore con meno curriculum nella storia della gara - sfruttando una fuga bidone e una serie incredibile di circostanze.
Dieci anni dopo, un'altra edizione matta (..) con Lucien Aimar che beffò il solito, sfortunato, Raymond Poulidor; la regia del golpe (?) fu di Jacques Anquetil, rivale acerrimo di Pou Pou. Jacquot avrebbe pagato lo sgarbo, l'ennesimo, qualche settimana più tardi al Nurburgring in occasione del Mondiale.
Zerosei altrettanto fuori di testa: Oscar Pereiro trionfò (..) a bocce ferme, acclarata la positività dell'ex postino (Armstronghiano..) Floyd Landis, autore di un assolo straordinario quanto sospetto nel tappone di Morzine. Successe di tutto, compreso il fatto che Pereiro rientrò in classifica grazie a una maxifuga nella Béziers-Montèlimar. Vinta da un irresistibile Jens Voigt, motrice dell'azione e compagno di squadra di Kloden che, facendo i conti della serva, perse il giallo di appena 32"...
Annate deliranti. Il 1996 di Bjarne Rijs e la fine del ciclo del Faraone Indurain, Epolandia Alta. Quando si rivelò l'Uber-Mensch Jan Ullrich (che senza obblighi di gregariato avrebbe strabattuto il - capitano - danese) e piovve per una settimana e mezzo, che parve autunno, prima dei quaranta gradi all'ombra nel Midi. Ancor meglio il '76, l'estate più calda del secolo: Van Impe, nella canicola, si mise in tasca la vittoria, verso il Pla d'Adet, con la collaborazione fattiva del grande Luis Ocana.
Il 1986 è una delle stagioni iconiche del Novecento ciclistico. L'arrivo mano nella mano, all'Alpe d'Huez, di Lemond e Hinault; la faida interna a Le Vie Claire, col Tasso e i francesi contro Greg e gli stranieri e il primo successo di un americano (e un extraeuropeo). Con la concorrenza, di lusso, di uno svizzero del Canton Soletta.

Urs Zimmermann è stato il tappista elvetico più forte della sua generazione. Fondista hors categorie, potente (proveniva dalla scuola della Cento Chilometri) e versatile. L'ottantasei fu l'apice di una carriera che non ebbe il premio che meritava, cioè la vittoria in una grande corsa a tappe. Duellò con un super - Sean Kelly - alla Parigi-Nizza; portò a casa, meritatamente, Critérium International, Dauphiné Libéré e il Campionato Nazionale.
Capitano di una squadra notevole, la Carrera di Davide Boifava, fu sfortunato nell'incrociare le sciabole con Lemond, Hinault e il gruppo Tapie: i gregari si chiamavano Hampsten, Bauer, Bernard, etc.
Le Blaireau e il delfino, eterni litiganti, dovettero allestire un Trofeo Baracchi per distanziare - definitivamente - Zimmy. Lo staccarono nella discesa del Télégraphe, rischiando l'osso del collo, e isolandolo sul falsopiano (maledetto) che portava a Bourg d'Oisans (e all'Alpe). Il podio parigino, quel terzo posto, non avrebbe avuto continuità. Lasciò nella bufera del Passo Gavia - 1988 - l'occasione di vestire la maglia rosa del Giro. Poi, piano piano, declinò. Bipede complicato quanto intelligente e sensibile, vegetariano, ai tempi una primula rossa (sic), per lui - colla fobìa del volo - nel 1991 scioperò (compatto) l'intero plotone.
Nel giorno di riposo gli organizzatori, constatato il rifiuto di Urs di prendere l'aereoplano, lo squalificarono. La protesta dei corridori cancellò la decisione.
Il momentum di Zimmermann?
Sempre nel 1986, a Settembre, al Giro del Lazio, in quegli anni la terza classica tricolore dopo i due Monumenti (Sanremo e Lombardia). Opposto alla crema dell'epoca, mise assieme settanta chilometri di volo solitario: dalle rampe di Rocca di Papa al Colosseo, passando sul pavè di Appia Antica. Un'impresa atletica da incorniciare.

Il Tour 2016 sarà, per la prima volta da quarantun'anni, senza Lucien Blyau: l'omino ai bordi della strada che, di sua sponte, riforniva di bevande il gruppo. Mercoledì scorso, alla Halle-Ingooigem, Lucien - su una sedia a rotelle - ha visto forse per l'ultima volta il passaggio di una corsa. "Da tempo non mi sentivo così bene" ha dichiarato il novantunenne, malato terminale.
Lucien era conosciuto da tutti i corridori: li aspettava, imperturbabile, nei tratti più difficili e gli passava le bibite fresche. E un pò di sollievo.
Quando ci chiedono perchè amiamo il ciclismo, la risposta - semplicissima - è perchè ci sono i Lucien. O almeno sopravvivono. I personaggi, figli di un Dio minore, biodiverso, che altrove sono stati rimpiazzati (definitivamente?).
Sostituiti da una corte di esibizionisti, di attori (del villaggio globale), di vip rivolti verso le telecamere, di selfie. Talmente artificiali e colorati da indurre al daltonismo.

Simone Basso

Pubblicato da Il Giornale del Popolo venerdì 1 Luglio 2016

sabato, giugno 11, 2016

Andy Hampsten, il lupo del Gavia (di Simone Basso)

Un modo originale per celebrare il Giro di Svizzera, che parte da Baar l'11, è ricordare - senza amarcord - uno dei suoi plurivincitori.
Andrew Hampsten, classe 1962, protagonista nella seconda metà degli anni Ottanta e di uno scorcio dei Novanta, ci sembra perfetto.

Campione e pioniere, il biondo che nacque in Ohio (Columbus) rappresentò - poco dietro Greg Lemond - la frontiera americana.
Il suo nome rimbalzava già qua e là sui periodici stile Miroir e Biesse. Due volte medagliato, da juniores, nella Settanta Chilometri iridata (1979, 1980), crebbe - dilettante - con la (piccola) Levi's Raleigh.
Al battesimo del fuoco con i pro del vecchio continente - 1985 - si mise subito in evidenza. Firmò un contratto a tempo con la 7-Eleven, la compagine nordamericana che colmò le distanze, soprattutto culturali, con l'altra parte dell'Atlantico.
Hampsten, dei ragazzi del diesse Mike Neel, era il più futuribile. C'erano Ron Kiefel, che sorprese tutti, all'esordio in Italia, vincendo il Trofeo Laigueglia, Davis Phinney (sì, il babbo di Taylor), l'hombre mexicano Raùl Alcalà, la leggenda olimpica (del pattinaggio di velocità!) Eric Heiden e Jonathan Boyer, il precursore, il primissimo yankee che corse in Europa.
Un pò di folklore, tattiche inedite per i nostri standard (abituati ai capitani dittatori..) e tanto talento. Furono la sorpresa del Giro d'Italia 1985, altresì ricordato come una delle edizioni più monotone.
Il patron Torriani, disegnando il tracciato per il bis di Francesco Moser, abiurò l'alta montagna. Accadde così che le sole tappe con un finale in arrampicata (..) andarono a Hubert Seiz (la Pinzolo-Selva di Val Gardena) e al nostro.
Cinquantotto chilometri verso il Gran Paradiso in Val d'Aosta: Andy partì secco dal plotoncino e nessuno osò replicare. Al traguardo, il primo successo tra i Grandi e l'interessamento degli squadroni europei.
Prevalse Le Vie Claire di Bernard Tapie per un paio di ottime ragioni: molte svanziche e un gruppetto di nordamericani (Lemond, Bauer, Knickman, etc.) ad accoglierlo.
L'anno seguente (l'86) fu testimone diretto di una Grande Boucle alla nitroglicerina.
Una sfida senza esclusioni di colpi tra il Maestro (Bernard Hinault) e il suo delfino Lemond, con la partecipazione del terzo incomodo (Urs Zimmermann).
Comprendendo nella sceneggiatura l'arrivo cinematografico all'Alpe d'Huez, mano nella mano, tra i due litiganti; Steve Bauer che urla "Fuck you!" al Tasso che tenta un allungo e una ruota scentrata apposta dai meccanici (francesi) alla maglia gialla (americana). In tutta quella sarabanda, Andy - matricola di lusso - chiuse al quarto posto e in maglia bianca.
L'anno dopo, malgrado i soldi, preferì tornare alla 7-Eleven nel ruolo di capitano.

Uno così, fortissimo e a suo agio contro il tempo, specialista delle cronoscalate, pareva disegnato dal sarto per i Tour de Suisse di quell'evo. Infatti il biondo fu primattore per anni: due trionfi consecutivi (1986, 1987) e due podi (1990, 1991).
Ottantasei. Indossò la maglia oro alla vernice, nel cronoprologo di Winterthur, in una specie di gara sociale de Le Vie Claire: secondo (a 1") Lemond, terzo Niki Ruettimann (a 7"), sesto Bauer. Il pomeriggio decisivo occorse nella sesta frazione, l'Innertkirchen-Visp, quando Hampsten, Lemond, Chioccioli, Millar e Zimmermann staccarono il leader Jean-Claude Leclercq.
Il 1987 visse sul filo dell'incertezza. Nella Generale precedette di appena un secondo Peter Winnen e di sette Fabio Parra: la festa del grimpeur...
Eppure fu il primo Tour de Suisse con una media complessiva superiore ai quaranta orari (40,136 km/h). Nel '90 si aggiudicò il tappone Unterbach-San Bernardino davanti a Robert Millar (un altro camoscio) e nel '91 fece suo il Gran Premio della Montagna. In totale, i giorni indossando l'oro fanno dieci e, ribadendo la sua simpatia per la Confederazione, aggiungiamo al palmarès il Romandia 1992.

Hampsten diventò Hampsten al Giro 1988. Una corsa sconvolta dalla bufera di neve sul Passo Gavia, una delle giornate più incredibili di sempre nella storia del ciclismo.
Johan Van der Velde, che scollinò primo sul gipiemme, rischiò lo choc ipotermico; altri maledirono il mestiere (Visentini, Bernard, Chioccioli..). Rimasero, per il successo parziale e lo scalpo rosa, Erik Breukink e l'americano. Che fu sorpassato, in bambola, nella discesa su Bormio, dall'olandese: Hampsten, tremando come una foglia, vestì le insegne del primato.
Un Giro bellissimo, zeppo di colpi di scena. Andy dominò all'insù: in linea, a Selvino, e a cronometro, in quel di Vetriolo Terme. Jeff Bernard, grande favorito della vigilia, affondò nell'inferno bianco del Gavia.
Jean Francois siglò un patto con Zimmermann: per ribaltare la classifica, un Trofeo Baracchi nella Borgo Valsugana-Arta Terme era l'ideale. Il capitano della Toshiba ahilui non ci arrivò. Cadde in una galleria: un incidente che fu lo spartiacque della sua carriera, da giovane fenomeno a promessa mancata.
Zimmy si involò, con Stefano Giuliani a mò di zavorra alla ruota, ed ebbe sulle spalle - per un'ora - la rosa virtuale. Poi, nel fondovalle, la 7-Eleven trovò la Del Tongo di Giupponi e la Panasonic di Breukink ad aiutarla e Hampsten completò l'impresa.

Il biondo fece terzo l'anno dopo, nel 1989, quando Laurent Fignon si riprese il maltolto di un lustro prima. Rimase lassù, coi migliori, pure all'esplosione - deflagrante - di Robosport. Nel 1992 chiuse al quinto posto il Giro e al quarto il Tour, sorpassato da Gianni Bugno il penultimo giorno, a cronometro. Quella volta trionfò all'Alpe d'Huez, esibendo il colpo di pedale, elegante, delle grandi occasioni.
Bello in sella, composto quanto essenziale, pensiamo si sarebbe trovato bene nel ciclismo di oggi, del Passaporto Biologico. Lui che vinse un Giro con trentotto di ematocrito...

Trent'anni dopo il primo Tour de Suisse, Andrew si divide tra il Colorado, il luogo dove si è sviluppato il movimento ciclistico a stelle e strisce, e la Toscana, sua terra adottiva.
A Boulder, insieme al fratello Steve, disegna e vende bici customizzate. In Italia organizza con Elaine, la moglie, pedalate in giro per il Bel Paese.
Il viso da bambino, invecchiato ma non troppo, è sempre lo stesso. Se gli chiedete dei suoi trionfi, il lupo del Gavia sorride e vi risponde evitando l'enfasi.
"I'm just some guy who raced his bike through the snow."













Simone Basso

Pubblicato da Il Giornale del Popolo il 10 Giugno 2016

martedì, maggio 31, 2016

Il Giro 2016 visto da Simone Basso

Si era partiti dai Paesi Bassi con un meteo da estate mediterranea, si finisce - l'ultimo dì, da Cuneo a Torino, con la pioggia, nemmeno fosse Aprile in quel di Amsterdam.
Il Giro 2016 è stata una contraddizione benedetta dal cielo: vis agonistica folle, mentre parecchio quarto potere raccontava di una corsa rosa addormentata, un buon livello medio tecnico ma non paragonabile a quello delle ultime due edizioni e, soprattutto, una montagna di storie. Dolcissime o amarissime, a seconda dei protagonisti.

LO SQUALO E IL COLIBRI'
L'epilogo, sul traguardo di Sant'Anna di Vinadio, è di quelli forti: don Vincenzo Nibali, ormai santo protettore del pedale italiano, vince una gara che due giorni prima aveva già virtualmente perso. Strappa la rosa, di cazzimma più che di gambe, a un ventiseienne con la faccia da bambino - Esteban Chaves, il Colibrì - con un bel futuro nei Grandi Giri. All'arrivo la mamma del portacolori della Orica abbraccia, di istinto puro, nessuna vetrina, tutto cuore, Nibali: una lezione di sport e umanità.
Non l'unica da parte di un ambiente, piaccia o meno, vero, fatto di atleti, giovani uomini, forti quanto fragili. Le talpe che si svegliano il sabato pomeriggio abusano di frasi fatte per acchiappare le emozioni (bulimiche): definire "impresa d'altri tempi" il successo dello Squalo è ignoranza della storia.
Il ciclismo è sempre questo: è il suo tempo che è altro perchè, vivendo di passato e futuro, cancella la follia del presente. Non abbiamo bisogno che si imponga un grande campione per accorgerci quanto sia straordinario. Amen.

DON VINCENZO E IL DECLINO DEL CICLISMO ITALIANO
Nibali si aggiudica la sua quarta corsa a tappe di tre settimane della carriera. In un certo senso è un suggello della stessa e chiude un cerchio: curiose le similitudini con la prima volta, la Vuelta 2010, quando ereditò la roja da Igor Anton, caduto rovinosamente durante la quattordicesima tappa (si arrivava a Pena Cabarga), e che pareva in pieno controllo della situazione.
Squalo fortunato ma con una cabeza speciale: per esempio i dati di Risoul, la stessa salita del (trionfale) Tour 2014, lo confermano. Il chilometro all'ora in meno (22,86 contro 23,81) evidenzia la distanza tra il miglior Nibali di sempre e quello (declinante) di oggidì. Che sbaglia tempi e misure degli attacchi a Roccaraso, sul Falzarego, sulla Mendola ma non affonda. Un'idea del gesto ciclistico che va oltre i wattaggi: fa parecchio Toscana, lui che crebbe - nelle categorie giovanili - proprio nell'antico Granducato. Erede postmoderno di Gastone Nencini per chassis e grinta.
Il resto sono i vuoti di sceneggiatura altrui e una squadra, l'Astana, dominante: Scarponi premio Cipputi del Giro, Kangert decisivo sulla Lombarda, l'ottimo Fuglsang.
Un'equipe che ha ritrovato l'unità col gruppo del siciliano, malgrado la separazione quasi inevitabile a fine stagione. Segnaliamo anzitempo la sitcom che si girerà durante la prossima Grande Boucle nel team kazako: Nibali e Fabio Aru, per usare un eufemismo, non si amano.
Appunto, il sardo (ventisei anni) è l'unico tappista tricolore di altissimo rango della nidiata nata negli anni Novanta. Il movimento italiano, al di là della strana coppia isolana (..), è ai minimi termini alla voce tappisti.    

L'OLANDESE VOLANTE E LA SINDROME DI PASCAL SIMON
Il momento decisivo del novantanovesimo Giro d'Italia è allo scollinamento del temuto Colle dell'Agnello: discesa infida, con una nebbiolina che - nei primi chilometri della picchiata - si confonde con i muri di neve a lato. La maglia rosa Steven Kruijswijk, che sta dominando la contesa, sbaglia un curvone a destra e si produce in uno spaventoso salto mortale. E' l'attimo che cambia l'inerzia di tremila chilometri di competizione. La sosta meccanica di Kruijswijk (che nel capitombolo rimedia pure una microfrattura costale), pessima nel tempismo dell'ammiraglia, completa il disastro. In quel frangente Rosso Malpelo perde tutto, anche il podio. Una sorte crudele per il migliore corridore di questo Giro, che a vederlo pare il sosia di Peter Winnen, vecchio eroe dei Tour degli anni Ottanta.
Meno scattista dello scalatore della Ti-Raleigh, però più elegante sul mezzo e altrettanto fondista de luxe. Incredibile l'ignoranza di molti giornalisti (..) al seguito, che storpiano il nome di questo atleta senza ricostruirne il percorso. Nel 2015, dalla decima frazione in poi, fece corsa parallela con la maglia rosa Contador: il più regolare di tutti nelle tappe chiave. Il potenziale è quello, ma l'olandese ha capito - sulla sua pelle - che un Giro (il Tour neanche in sogno..) non si vince senza una squadra competente. L'anno prossimo Kruijswijk potrebbe riprendersi ciò che la sorte gli ha tolto, oppure indulgere nella Sindrome di Pascal Simon.
Il capitano della Peugeot al Tour 1983 che, in giallo e con una seria ipoteca sulla gara, cadde a un rifornimento bruciando l'occasione della vita.  

EL EMBATIDO E I CONTI DELLA SERVA
Il terzo posto di Alejandro Valverde (trentaseienne..) arricchisce ulteriormente un palmares che, per versatilità, ha pochi eguali nella contemporaneità. Il podio nei tre Grandi Giri, nel Mondiale in linea e lo scalpo di almeno un Monumento è un curriculum che - oggi - vanta solamente Purito Rodriguez. El Embatido sarà quel che sarà (Calboni docet), ma è di una regolarità impressionante. Facendo i conti della serva, al di là dei noti problemi del murciano con l'altitudine, Balaverde ha perso tre minuti nella cosiddetta Cavalcata dei Monti Pallidi. Togliete quel pomeriggio e la rosa che conta, quella di Torino, l'avrebbe vestita lui.  

PETO IN CALIFORNIA
In Italia ci si straccia le vesti per la qualità media dei contendenti alla vittoria finale, rimpiangendo i decenni quando i gruppi sportivi (..) del Bel Paese la facevano da padrone. E scattano le polemiche, sterili, sui due supervelocisti tedeschi - Greipel e Kittel - a casa dopo poche tappe, un'usanza di molti sprinter anche nel passato e non solo al Giro (Cipollini non ha mai concluso un Tour..). Il problema autentico del Giro, in piena globalizzazione, è vedere al Tour of California assi come Sagan, Kristoff, Cavendish, Van Avermaet, Boonen, etc.
L'UCI non dovrebbe proteggere i suoi patrimoni? Nell'anno dell'iride assegnata nel deserto, a Doha, è una domanda che si perde nella sabbia...

PARENTESI ROSSOCROCIATA
Definiremmo interlocutorio il Giro dei (pochissimi) svizzeri al via. Per Cancellara, complice una gastroenterite, a dispetto della voglia di continuare, è stata una Via Crucis di dieci stazioni; Kueng ha accumulato esperienza. Stefan, smaltito qualche chilo, dopo la pista a Rio 2016, diventerà uno dei migliori passisti del gruppo. Il futuro invece non c'è più per IAM Cycling, il combo svizzero (l'unico..) di World Tour che più cura il vivaio indigeno. Un progetto molto interessante che non verrà rinnovato per la mancanza di un nuovo sponsor: Michel Thétaz, il patron, chiuderà la squadra a fine 2016. L'imprenditore vallesano si è detto deluso dalla mancanza di interesse riscontrata presso altre aziende locali...    

WOLFIE E I FRANCESI
La mascotte del Giro, in collaborazione col Wwf, è un simpatico lupetto. Wolfie, questo il suo nome, perora la causa del canide più grande e sfortunato della catena alpina. In occasione dello sconfinamento nel cantone di Guillestre, gli allevatori francesi non l'hanno presa bene: consideravano Wolfie, un simpatico pupazzetto, un'offesa contro il loro mestiere. Così il lupetto ha dovuto attendere la carovana in Piemonte.
Il pubblico autoctono poi, sulla strada, ha latitato. Ai francesi - si dice - interessa solo il Tour e lo fanno capire. Il confronto con il bagno di folla, e l'ospitalità, della Tre Giorni olandese è stato imbarazzante.      
I francesi "..che le balle ancora gli girano.." di Paolo Conte è uno stadio mentale, non solo una canzone.

CENTO DI QUESTI ANNI
Nel 2017 si festeggerà il centenario; impazza il toto località, in prima fila (per ragioni ovvie) i passaggi in Sardegna e in Sicilia, addirittura una tappa dedicata - in quel di Messina - allo Squalo.
Il Giro rimane un racconto popolare incredibile, alla faccia delle telecamere che inquadrano i rari idioti esibizionisti che non rispettano i corridori (e il senso di uno sport), di una RCS ondivaga nell'impegno, di un'informazione "generalista" insufficiente e cialtrona. Forse perché ha un'anima, una magia, spiegata dai ciclisti e dal contorno di una festa che li attende per ore.

Simone Basso


Pubblicato da Il Giornale del Popolo il 31 Maggio 2016

lunedì, maggio 30, 2016

Nibali fortunato (e bravo) in un Giro modesto. Si può scrivere o è lesa maestà?

Ho lasciato passare un paio di giorni per esprimere il mio pensiero sul Giro d'Italia 2016. "Eroico", "leggendario", "epico" sono gli aggettivi più utilizzati dai media italiani per descrivere la vittoria di Vincenzo Nibali. Gli stessi media, si badi bene, che fino a venerdì avevano cercato le scuse più improbabili per giustificare le scadenti prestazioni del messinese. 
La mia idea su questo Giro è molto semplice (e impopolare): Nibali, grazie alle due belle tappe di venerdì e sabato, ha vinto in modo fortunoso un Giro d'Italia modesto
Fortunoso perché il Giro era di fatto chiuso. Steven Kruijswijk era nettamente e meritatamente in testa alla generale e aveva dimostrato di poter controllare agevolmente le ultime salite della corsa rosa. L'olandese ha pagato in modo clamoroso l'errore in una curva e l'inspiegabile assenza dell'ammiraglia.
Nibali ha saputo capitalizzare la caduta dell'olandese e recuperare grazie alla sua proverbiale grinta e all'ottimo lavoro di squadra. In realtà il messinese ha effettuato due buone prestazioni - nulla più - nelle ultime due frazioni alpine, sfruttando la debolezza degli altri rivali (Kruijswijk era ko, Chaves era alla prima esperienza a questi livelli, mentre Valverde non è competitivo sulle salite oltre i 2.000 metri e non era certamente al meglio della condizione). Insomma, due buone tappe, favorite dall'harakiri di Krui, hanno spinto i media italiani a paragonare la rimonta di Nibali alle imprese di Coppi.
Che Nibali abbia regalato delle grandi emozioni ai tifosi italiani è fuori di dubbio. Così come è indiscutibile la bella rimonta nella generale e la conquista del 4 GT in carriera. Detto questo, tuttavia, gli elogi sperticati e gli azzardatissimi paragoni col ciclismo epico, appartengono alla consueta, stucchevole retorica nazionalista (a fine post ritornerò su quest'ultimo aspetto). 
Modesto per il livello medio dei partecipanti. Quasi superfluo citare l'ormai consueta assenza di tutti, ma proprio tutti, i ciclisti più forti a livello GT: quest'anno Contador, Froome, Quintana, Aru, (senza dimenticare, tra gli altri, Van Garderen e Pinot, molto migliorato a cronometro). La vittoria finale stava per andare a un corridore (Kruijswijk) che prima del Giro 2016 aveva ottenuto un 7° posto come miglior piazzamento in un GT (Giro 2015).
A livello tecnico, poi, si può citare il Dottor Ferrari che nel suo sito scrive: "Il livello tecnico espresso nel giro 2016, nonostante lo spettacolare epilogo, non è stato altissimo. Le potenze espresse in salita raramente hanno superato i 6.00 w/kg: (...) Anche il miglior Nibali dell’impresa di S. Anna di Vinadio non ha espresso potenze superiori ai 6.00 w /Kg nel suo attacco decisivo sul Colle della Lombarda". Insomma, niente di superlativo (da un certo punto di vista verrebbe da dire: meno male).
Si può persino ribaltare il discorso: per Nibali, qualsiasi risultato diverso dalla vittoria finale sarebbe stata una delusione. In questo Giro, contro questi avversari.
Un ultimo aspetto da rimarcare: nello sport, non sempre cifra tecnica ed emozioni vanno di pari passo. Il Tour de France 2015, ad esempio, è stato molto più prevedibile e noioso di questo Giro.

LE TELECRONACHE TIFOSE DI RAI SPORT - Il Giro 2016, e le ultime tappe in particolare, hanno esasperato una tendenza a dir poco riprovevole: una sorta di valentinorossizzazione - dal modo in cui i media italiani hanno trattato il finale della MotoGP 2015 - del commento ciclistico da parte di Rai Sport (sia in telecronaca che al Processo).
Di fatto Nibali è stato l'equivalente della nazionale di calcio. Le telecronache di Pancani - con Martinello cercava a stento di mantenere un apparenza di equilibrio - possono essere tranquillamente avvicinate a quelle tifose dei vari Pellegatti e Alvino.  Un modo di raccontare la corsa lontano anni luce da quell'imparzialità a cui dovrebbe aspirare qualsivoglia telecronista. Soprattutto del servizio pubblico. Questo non significa che non si possa enfatizzare la rimonta di Nibali. Significa semplicemente che si può fare del buon giornalismo e trasmettere delle emozioni senza trascendere nel fanatismo.

lunedì, maggio 09, 2016

L'inaccettabile telecronaca di Bragagna contro Schwazer (e Donati)

"Un’operazione di maquillage e marketing”. Così Franco Bragagna definì il progetto Schwazer-Donati durante la telecronaca Rai del Golden Gala 2015 (vedi articolo di Eugenio Capodacqua).
In quel momento, la mia stima verso lo storico telecronista dell'atletica leggera (e non solo) cominciò a venir meno. Blog-In, infatti, ha sostenuto sin dal primo istante il recupero a livello umano e agonistico di Alex (vedi) e lo scorso luglio, insieme all'amico Alberto, abbiamo organizzato una giornata speciale a Roma (vedi). Definire in quel modo un progetto unico, di altissimo valore umano e sportivo, è stato un colpo basso che mai mi sarei aspettato da uno dei migliori giornalisti di Rai Sport.
Chissenefrega se la penso diversamente da Bragagna direte. Vero. Il "problema", però, ha assunto dimensioni grottesche in occasione del ritorno alle gare di Schwazer dopo 3 anni e 9 mesi di squalifica. Un rientro strepitoso, con la vittoria nella gara dei Mondiali a squadre di Roma e la qualificazione alle Olimpiadi (ma non era un'"operazione di marketing"?).
La telecronaca condotta da Franco Bragagna è stata un profluvio di durissime critiche al marciatore altoatesino. Basta riascoltare i primi 10' di gara. Bragagna è partito subito all'attacco, sostenendo, senza contraddittorio, una posizione al limite dell'astio nei confronti di Schwazer. Qualsiasi cosa, qualsiasi azione compiuta da Schwazer dal 2012 in poi è stata oggetto di critica feroce. Addirittura il buon Bragagna, dopo 4' di gara (!), ha stigmatizzato il gesto tecnico, sostenendo che prima della squalifica Schwazer  marciasse molto meglio. Secondo il telecronista bolzanino, poi, l'apertura dell'inchiesta sui whereabouts è stata "colpa" di Schwazer. Un attacco continuo che non ha risparmiato nemmeno Sandro Donati. Dai dubbi sulle sue qualità di allenatore della marcia, si è arrivati sino alla frase che, probabilmente, descrive alla perfezione il sentimento di Bragagna nei confronti del progetto: "Donati, paladino dell'antidoping o presunto tale". Per sostenere questa tesi, a dir poco curiosa, Bragagna ha tirato in ballo la recente polemica tra Donati e la WADA, dimenticando però di citare oltre 30 anni di battaglie contro il sistema.

Ora, come ho avuto modo di dire, sulla vicenda Schwazer è naturale, oltre che legittimo, avere delle opinioni diverse. Magari, a chi ha lanciato messaggi di puro odio nei confronti di Alex (Tamberi, Tallent, Diniz) consiglio di studiarsi un po' meglio il progetto messo in piedi dal prof. Donati e dal suo staff. Detto ciò, il telecronista della Tv pubblica ha il dovere di informare in modo completo - possibilmente nel modo più imparziale possibile - i telespettatori. Può avere un opinione, può anche esprimerla, ma ha il dovere di fornire a chi segue la gara da casa, tutti gli strumenti utili per formarsi un'idea sulla vicenda. Ieri Bragagna ha portato avanti la sua personalissima battaglia contro Schwazer e contro il progetto guidato dal Prof. Donati. Inconcepibile. E inaccettabile.
Personalmente si tratta di una delle più grandi delusioni di sempre a livello giornalistico. Incredibile come una persona intelligente come Bragagna abbia utilizzato il mezzo pubblico per sparare a zero contro un progetto che rappresenta, invece, una straordinaria storia di sport e di vita.

Ps, sulla stessa vicenda, si è espresso anche Cycling Pro. Questo il finale dell'articolo che condivido al 100%:
"Da due giorni aspettiamo una presa di posizione della Rai su quanto accaduto. Dopo un episodio del genere può Franco Bragagna (che è libero di avere la posizione che meglio crede sul caso) commentare con equilibrio l’atletica ai Giochi di Rio per il servizio pubblico?".