
Terzo appuntamento con
Amarcord. Ci sono moltissime imprese sportive del passato più o meno recente che meritano di essere ricordate attraverso le righe delle più prestigiose
firme del giornalismo italiano e i
filmati un po' sgranati del'epoca. In questo periodo natalizio, avaro di grande sport (Premier League e Nba a parte), pubblicherò il maggior numero possibile di post sul tema.
Quest'oggi spazio ad uno dei più grandi atleti italiani di tutti i tempi, Jury Chechi. Il fuoriclasse della ginnastica artistica azzurra, il più grande interprete nella storia degli anelli, vince un indimenticabile oro alle Olimpiadi di Atlanta 1996. Un successo frutto della classe e della determinazione, nato quel maledetto giorno alla vigilia delle Olimpiadi di Barcellona '92 quando il tallone d'achille andò in frantumi e con lui il sogno a cinque cerchi del pratese. 9.837, un punteggio altissimo che proietta Chechi nella storia dello sport azzurro.
Ecco come Vittorio Zucconi descrive in un meraviglioso articolo la medaglia d'oro di Chechi (Repubblica del 30 luglio 1996):
Il supplizio di Jury comincia con uno sguardo alla forca, con
un'occhiatina straziante che il condannato lancia ai due nodi scorsoi che lo
aspettano lassù, davanti a una platea di sadici e "tricoteuses" paganti che gli
gridano forza, dai, muori ancora una volta per noi, su, fai il bravo. Il
condannato deve sentire una voglia improvvisa di fuggire, di baciare la sua
ragazza al mare, di dormire sotto un abete in montagna, ma il boia
Franceschetti, il suo preparatore, gli bisbiglia un'ultima parola di conforto e
lo solleva leggero, per la vita, verso il patibolo alto due metri e 50, fatti
coraggio figliolo. Il condannato ormai appeso agli anelli si contorce in un
ultimo spasmo per assestarsi e poi con una smorfia si abbandona finalmente alla
sua condanna. Sbuffa, ma non respira più. Fissa, ma gli occhi non vedono
più.
Il volo della rondine per i prossimi 56 secondi, morirà sugli attrezzi
della sua tortura, nell'agonia del diaframma compresso che gli impedisce di
respirare, nel tremore incontrollabile dei muscoli che si ribellano a uno sforzo
impossibile, nel terrore che questa volta non ce la farà e resterà appeso per
sempre, inchiodato in quella eterna posizione di croce alle quale devono essere
condannati i ginnasti cattivi che vanno all'inferno. E invece riesce a scendere
dalla forca, a sciogliersi dai cappi, a volare e a cadere perfettamente sui due
piedi, dunque a vivere. I ginnasti non vincono, dopo un esercizio agli anelli,
rinascono.
Spero che possiedate un videoregistratore e che abbiate registrato
i 56 secondi dell'esercizio agli anelli che ha dato a Jury Aleksej Dimitri
Chechi, rosso di Prato, e all'Italia, la medaglia d'oro più classica e più rara
per noi, quella di una specialità nobile come la ginnastica. Prendete il
telecomando e pigiate sui bottoncini della "slow motion", del fotogramma per
fotogramma, e osservate tremore per tremore che cos'è lo sforzo di un campione
olimpico. Guardatelo mentre sistema con rabbia, con odio, le mani e i polsi
negli anelli per trovare la posizione giusta, in una nuvola di carbonato di
magnesio, la polvere che usano i ginnasti. Poi seguite la lenta impennata verso
la prima verticale, nella fatica di essere perfetti, le gambe ritte e
perfettamente equidistanti dai due canapi che reggono gli anelli, mentre giù in
fondo la faccia di Jury diventa una maschera rossa, rossi i capelli, rosse le
guance, rossi anche gli occhi per il sangue che defluisce e che gli pulsa in
testa.
Nella prima verticale le gambe sembrano tremare un poco, i piedi
giunti in alto paiono pencolare un filino verso il canapo di destra, quanto
basta a separare un oro da un quinto posto, in una disciplina di torturatori e
di suppliziati come la ginnastica. Ecco, adesso cede, adesso molla. E' finito il
sogno per il rosso di Prato, per questo giovane di 27 anni che i giornali
assetati di frasi fatte hanno già ribattezzato il "signore degli anelli", che
persino la televisione americana, indifferente ormai a qualunque atleta che non
sia di apparente sesso femminile e nata nei 50 Stati Uniti, ha ammirato con
qualche stupore.
Nessun "italian boy" può reggere a questi sforzi, alla
disciplina infernale di un ginnasta, alla sofferenza di perdere un'Olimpiade
(Barcellona) per un tallone d'Achille saltato per tornare al fronte 4 anni dopo.
Noi siamo l'armata sagapò, il popolo degli spaghettari cialtroni e intonati, i
buffoni del calcio che si fanno eliminare dal Ghana, non le creature fatte di
filo di ferro che vincono le medaglie ginniche. Ma i fotogrammi del
videoregistratore non mentono. Jury esce dalla prima verticale, volteggia,
lancia la seconda, perfetta, poi si allunga nella posizione detta "a rondine" ,
le braccia raccolte sul torso, le gambe puntate all'indietro parallele al suolo,
che avrebbe fatto piangere di invidia Torquemada.
Il pubblico dei sadici
grida, grida la Comaneci, che è venuta ad applaudire Jury, urla come un pazzo
Bucci, il compagno di squadra, che si è avvolto una bandiera italiana come un
turbante sikh attorno alla testa, grida persino Charles Barkley, il signore che
preferisce usare gli anelli per buttarci un pallone da basket dentro. Ma Jury
trema. Quando si abbassa e poi si estende nella posizione della croce, da
lontano sembra un piccolo falco rosso sospeso pigramente a mezz'aria, sostenuto
da una corrente d'aria amica. Ma da vicino le vene delle tempie esplodono, le
mandibole sono strette, la punta del mento trema.
Ma perchè si chiama Jury?
domanda un telecronista americano, è un russo naturalizzato italiano? No, gli
risponde l'esperto, è figlio di un italiano che ammirava Jury Gagarin. Meno male
che si ferma lì, che non sa che il padre ammirava molto più di Gagarin, ma tutta
l'Unione Sovietica, e chiamò anche la sorella di Jury con un nome russo, Tanja.
Adesso il padre, Leo (come Tolstoj) è consigliere comunale del Pds a Prato, e i
Chechi hanno il rosso nel sangue oltre che nei capelli, da quando i nonni, i
vecchi lavoravano sui Monti Metalliferi della Toscana a scavare lignite, tra
Grosseto e Siena. E chissà quanto ancora si scandalizzerebbero gli americani che
allevano le loro pollastrine da ginnastica a crusca e latte di soia, se
sapessero che quel cristo italiano inchiodato in una perfetta crocefissione va
avanti a terrine piene di dolce Tiramisù.
E invece secondo per secondo,
tremore per tremore, la vendetta del Tiramisù si consuma sul patibolo di
Atlanta. L'angelo è perfetto. La rondine vola. Le verticali sono spade contro i
riflettori del Georgia Dome, lo stadio coperto. Manca soltanto il volteggio
finale, il giro della morte, l'ultima agonia. Jury si divincola dai cappi,
"ruzzola" in aria come avrebbero detto i nonni toscani, i suoi 161 centimetri di
altezza per 59 chili Tiramisù compreso si raggomitolano in una pallina che si
dipana soltanto un istante prima dell'atterraggio, a gambe lievemente dischiuse,
per avere più base. Fermate il video qui, a 55 secondi e mezzo, a 50 centimetri
dal materassino, e lasciamo Jury sospeso ancora per un attimo, tra la vita e la
morte del ginnasta.
In quei cinquanta centimetri si sta giocando tutto.
Quattordici anni di allenamenti strazianti, di mattine gelide nelle palestre di
Varese dove oggi vive, di interventi chirurgici, di gambaletti di gesso, di
volteggi e croci e rondini e torture ripetute dieci volte al giorno, per almeno
30 mila volte, stanno chiusi in questi 50 centimetri fra le sue scarpe e il
suolo. Se le scarpe resteranno incollate, è oro. Se gli scapperà un passetto, un
saltello, dieci centesimi di punti in meno, niente oro. Si incollano. Le scarpe
si schiantano sul materassino, le gambe di piegano e tremano per l'ultima volta
funzionando da ammortizzatori, la schiena si raddrizza, le braccia si alzano
verso il pubblico che applaude, grida Jury Jury, impazzisce nella felicità di
avere visto un altro Lazzaro uscire dal suo sepolcro sportivo.
Il piccolo
miracolo dello sport si è ripetuto. Alle sue spalle, i due cappi dondolano
adesso pazienti e un po' delusi. Ci sarà presto un'altra vittima per loro. Ma
non Jury, non questa sera.
Ed ecco invece il video dell'esercizio di Chechi tratto dalla diretta Rai. Commento di Andrea Fusco.