Pallini a volontà sul tennis a Rio, dopo una settimana di pallate.
Appunti semiseri di un torneo preso da tutti molto seriamente, anche fin troppo.
L'argento olimpico di Timea Bacsinszky e Martina Hingis nel doppio femminile, sconfitte in finale (4/6 4/6) dalla coppia russa Ekaterina Makarova ed Elena Vesnina, tipico combo quantitativo di questo evo, ha qualcosa del rendez vous romantico.
Gemelle diverse, anche nei risultati, il dinamico duo elvetico è uno specchio delle dinamiche del tennis moderno.
Bambine prodigio, Martina oltre ogni immaginazione del concetto stesso, e poi - in fasi differenti della carriera: Hingis all'apogeo, Timea alla vernice - incapaci di gestire la pressione delle aspettative.
Entrambe, a osservarle anche distrattamente, paiono nate con la comprensione istintiva (e l'istinto è intelligenza cristallizzata) e naturale del gioco.
Ormai trentaseienne, Hingis evolve (e talvolta incanta) a quasi vent'anni da quando, nel 1997, divenne la più forte adolescente di sempre nella Wta.
Timea si è ricostruita una vita tennistica, oggi è numero quindici delle classifiche: nemmeno tre stagioni fa era in una scuola alberghiera a imparare un mestiere, uno vero (..).
Le MarTimi in Brasile sono arrivate all'atto conclusivo nella maniera più rocambolesca possibile, annullando due match point contro le ceche Hlavackova e Hradecka in semi (5/7 7/6 6/2).
Hingis, per aggiungere danno alla beffa, è pure riuscita - involontariamente - a rompere l'orbita sinistra alla Hlavackova in uno scambio a distanza ravvicinata.
A vederle sul podio, felici, più bambine di quello che l'anagrafe attesti, ci sovviene un aforisma di Carmelo Bene.
"Il talento fa quello che vuole, il genio fa quello che può."
Nel trionfo dell'enfasi, un (banale?) primo turno all'Olympic Tennis Centre è stato l'epicentro di tutto, forse (addirittura..) della stagione intera.
O la semplice conferma di ciò che ribadiamo da almeno un lustro: lo star system, l'omologazione dello stile (..) e delle superfici, i tabelloni protetti.
E l'assenza forzata, causa infortuni, di alcuni elementi.
Le statistiche accumulate dai mammasantissima di oggi, nel paragone sbilenco e ossessivo col passato, non hanno lo stesso valore qualitativo di quelle dell'altroieri.
Juan Martin del Potro, 141 del mondo per il calcolatore ATP (nei panni farseschi di Hal 9000), che elimina Novak Djokovic (7/6 7/6) è una nemesi della presunta Era dell'Oro.
Su un cemento colloso, lento, che esasperava il rimbalzo e la violenza dei colpi, i diritti balestra dell'argentino hanno smontato il tennis percentuale, di difesa attiva, del serbo.
Al di là delle lacrime (umanissime) di RoboNole, non al cento per cento da Maggio (Roma), l'exploit di Del Po ha fatto capire a molti quanto sia stata pesante (e decisiva) la sua assenza in questi anni.
Un pò del curriculum sontuoso dei cosiddetti Big Four, una forzatura storica e di marketing, si deve all'anabasi chirurgica (tre operazioni al polso sinistro) di Del Po.
Il vero rivale generazionale di Djokovic e Murray, uno che vinse Flushing Meadows battendo (cortesia anche del Super Saturday televisivo..) Roger Federer: era il 2009, ancora ventenne.
Mettiamoci pure, nel conto, la mononucleosi di Robin Soderling: aveva ventisette primavere quando si ammalò.
Due corazzieri, non mobilissimi lateralmente, ma a loro agio - con un power tennis brutale - sull'hard court rallentato e il rosso scorrevole imposto dall'ATP e dai Federali.
Del Potro poi, quarantuno vincenti in appena due parziali il lunedì della resurrezione, opposto al miglior difensore del circuito, ha sempre mostrato - nelle grandi occasioni - l'animus pugnandi richiesto da certe contese.
Esattamente ciò che non è stato, e mai sarà, a dispetto del paio di Slam vinti, Stan Wawrinka: hardware pazzesco ma software difettoso, il vodese.
Chissà se, con quel forehand spacca tutto, aggiustato il rovescio bimane (con il back), Giovanni Martino non possa regalarsi - nel futuro prossimo - un'altra avventura major.
Tante le discussioni sul ruolo del tennis alle Olimpiadi.
Degli sport professionistici, ovvero quelli che vivono di un immaginario - consolidato - esterno all'epica dei Cinque Cerchi, rimane a metà ma tende (virtuoso) al ciclismo e alla pallacanestro.
Le discipline che meglio hanno assorbito (e sfruttato) la vetrina, non solo mediatica.
Ecco, non avendo la marginalità - voluta.. - del golf e del calcio, i calendari giocano un ruolo ambiguo.
I ras, soprattutto se in là con l'età, alla tournée ci tengono e non poco; il problema è l'effetto hamburger, l'ammassarsi di date e tornei.
Le Olimpiadi rivitalizzano la funzione e l'importanza del doppio: specialità, in altri momenti dell'anno, decadente e contigua al Senior Tour.
Il singolare dovrà invece trovare uno sbocco regolamentare (leggasi punteggi) per consolidare la fresca tradizione.
Rio de Janeiro, al netto delle emozioni (ma ne regalerebbe, in quel contesto, pure la corsa nei sacchi..), non è stata Londra 2012.
Mancavano l'All England Club e molti campioni (Federer in primis).
Giocare dopo lo zenith, Wimbledon, sarebbe l'ideale se non ci fossero - dietro l'angolo - le US Open Series e New York.
Il risultato, nelle fattezze, è stato un Mille così così, una Coppa Davis alla rinfusa, o un Cinquecento di lusso, Dubai con più pubblico e meno soldi.
Pensando a Tokyo 2020, i Sindacati e l'ITF dovranno riscrivere l'abbrivio al mese di Agosto: onde evitare che si preferiscano (persino a ragione) Toronto e Montreal.
Andy Murray doppia l'oro, qualche settimana dopo il bis di Wimby.
Muzza non perde un incontro dalla finale (vincibilissima..) del Roland Garros: fanno 46-6 da inizio zero sedici e l'intermedio, una striscia di diciotto vittorie consecutive, è a dir poco eloquente.
Eppure, a mò di manifesto di un resistibile robotennis, ogni successo sembra sottolineare una contraddizione.
Del Potro, battuto 7/5 4/6 6/2 7/5, è parso arrendersi, oltre che alla resilienza (ammirevole) dello scozzese, alle oltre tre ore di corpo a corpo col solito Rafa Nadal (l'Mvp della settimana sudamericana..) in semifinale.
Andy ama vincere complicandosi le cose: nel quarto set, contro un avversario visibilmente stanco, batteva in testa.
Muzza è l'ultimo dei Primissimi: psicologicamente, il linguaggio del corpo eccessivo, isterico, e dunque nell'agone.
Perfetto per inquadrare un'epoca: manina fatata, il migliore della crema dopo Federer, dotato di angoli e colpi Mecireschi, preferisce il tergicristallo, la fase orizzontale, ancorato alla riga di fondo, piuttosto che un tennis di offesa.
Però, tra gli acciacchi degli altri tre, il ginocchio e l'età di Roger, il polso e l'usura di Rafa e Nole, e l'inconsistenza degli eterni giovani, Muzza rischia (..) di accumulare un tesoro niente male.
Gli ultimi mesi di WTA, diremmo dal Serenicidio di Roberta Vinci allo US Open 2015, sono stati folli.
Le montagne russe, aspettando la prossima numero uno (Keys, Muguruza o Bencic?), col biglietto giusto nelle mani di un'outsider.
Se la Williams non riesce più a fare la Williams, e l'assioma si è verificato solamente a Wimbledon, la competizione diventa un terno al lotto.
A un passo da Copacabana, sono stati i giorni di gloria di Monica Puig, che ha regalato a Porto Rico il primo alloro olimpico di sempre.
L'amazzone di Miami è uno stereotipo, alquanto gradevole, del tennis rosa contemporaneo.
Pratica un gioco estremo, poco cerebrale, a tutto braccio: nei dì mediocri una sciagura, in quelli fortunati un'iradiddio.
Puig è riuscita a piegare - a forza di winners: diritti, rovesci, smorzate, verticalizzazioni - persino Petra Kvitova e Angelique Kerber.
Se l'umiliazione di Garbine Muguruza (6/1 6/1) appariva una primula rossa, la finalissima è stata la conferma dello stato di grazia.
La tedesca, sabato, in forma, favorita per rango e abitudine alle alte quote, non ha retto alle bordate dell'ispanica (6/4 4/6 6/1).
Che, dal trionfo a Rio, classe 1993, potrebbe sbloccarsi e mettere assieme un palmarès da campionessa.
O, in alternativa, spentasi definitivamente l'euforia, divenire la comparazione femminile dei Marc Rosset e Nicolàs Massù che furono.
Ai più distratti sarà sfuggito il bronzo conquistato da Radek Stepanek nel doppio misto, una certezza (sic) considerando il soggetto, in coppia con Lucie Hradecka.
Il duo boemo si è imposto sugli indiani Mirza e Bopama (6/1 7/5): l'ennesimo scalpo di un veterano, il buon Radek, indifferente ai suoi trentasette anni e a un tennis per lui irriconoscibile.
Giocatore anni Ottanta sbalzato, per errore, in un periodo che impone la standardizzazione di ogni elemento.
Stepanek è un panda, per atteggiamento e tecnica: provocatore, guascone; stilisticamente diseguale (quel rovescino bimane..) ma efficace.
Il ceco tocca la palla, anticipa e forza gli scambi, va a rete da Maestro: i robotennisti, in singolare, anche i fuori categoria, rischiano sempre il quarto d'ora di figuracce, alle prese con gesti - altrui - desueti quanto produttivi.
La nostalgia preventiva che ci assale, al limitare del canto del cigno degli ultimi che non crebbero con una racchetta monofilamento in mano, è più forte per i Radek Stepanek che un Federer.
Poichè il Mago Merlino, la sua parabola (estetica e da Campionissimo), è irripetibile.
Invece quelli come Radek erano lo zucchero nel caffè, gli specialisti che gustavi d'estate (sull'erba) e d'autunno (sul sintetico indoor).
I procteriani ci hanno impedito di vedere altri Stepanek ma, l'originale, non ha ancora esaurito le voglie.
E non intendiamo le sue conquiste amorose, innumerevoli anche nell'ambito tennistico: Hingis, Vaidisova, Kvitova.
Ha pure giurato che non si fidanzerà più con un'altra collega: promessa da marinaio, anche se non sapesse nuotare.
Simone Basso
Pubblicato il 16 Agosto 2016 da Il Giornale del Popolo